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L’arte del mediogioco

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Tra l’apertura e il finale gli dèi hanno creato il mediogioco. La frase è attribuita a José Raúl Capablanca, il grande campione cubano, campione del mondo dal 1921 al 1927.

C’è del vero in questa affermazione apparentemente banale. Il grande “Capa” voleva dire che si può anche riuscire, con uno sforzo immane, a imparare a memoria migliaia di posizioni di apertura e a studiare fino all’inverosimile la tecnica dei finali, ma nel mediogioco siamo in balia degli dèi, o meglio del talento che gli dèi hanno voluto elargirci.

Quando da ragazzo studiavo con passione gli scacchi, divoravo i libri e le riviste all’epoca disponibili e sperimentavo nuove aperture nelle partite amichevoli sperando così di migliorare il mio gioco. Poi mi capitava nei tornei di incontrare avversari che, pur non conoscendo le varianti migliori, vincevano sfruttando i miei errori nel centro di partita.

A volte uscivo bene dall’apertura, ma poi mi arrovellavo in posizioni complicate dove sarebbe stato necessario il colpo d’occhio tattico piuttosto che la profondità strategica. Per non parlare delle sfide lampo (oggi diremmo blitz o rapid) dove mi impantanavo nella scelta delle mosse migliori mentre il tempo scorreva inesorabile e così, alla fine, con pochi secondi sull’orologio, finivo per commettere errori banali anche in posizioni vinte.

In qualche occasione mi capitava di perdere delle partite senza nemmeno capire perché ero finito in una posizione infelice (i motori scacchistici dovevano ancora essere inventati) magari a causa di una serie di piccoli errori, di scelte dubbie o di inesattezze che, una dopo l’altra, finivano per condizionare il risultato finale.

Dopo ogni sconfitta mi convincevo che bisognava studiare meglio le partite dei campioni e le loro aperture preferite e spesso rivoluzionavo il mio repertorio, ma puntualmente incontravo nuove difficoltà e mi sembrava di non imboccare mai la strada giusta.

I libri sul mediogioco a quei tempi erano pochissimi e nell’era pre-informatica non c’era la possibilità di giocare online o di seguire canali YouTube. Studiai, ma senza approfondirli molto: “Il centro di partita” di Romanowski, “Pensa, gioca e allenati come un Grande Maestro” la trilogia di Kotov e leggiucchiai il manuale di Enrico Paoli, senza ricavarne gran costrutto.

L’unico libro che trovai appassionante e mi insegnò tante cose (lo raccomando ancora oggi a tutti coloro che vogliono migliorare il proprio gioco) è “Il mio sistema” del grande Aaron Nimzowitsch. Questo classico degli scacchi, al contrario di quanto si possa immaginare, è un testo scorrevole (adatto a principianti e ai giocatori di media forza) ricco di consigli pratici di carattere soprattutto strategico.

Una volta letto tutto lo scibile sul mediogioco, traendo un certo giovamento dall’analisi delle partite dei campioni, (indimenticabile la lettura delle “60 partite da ricordare” di Bobby Fischer) continuavo tuttavia a commettere errori al momento di scegliere le mosse cruciali.

Cominciai a pensare che il mio problema fosse la tattica. Incontravo grandi difficoltà, come capita alla maggior parte dei dilettanti, nel calcolare le varianti, mi perdevo tra i “rami” dell’albero come un uccellino che ha smarrito la strada giusta, tornavo più volte sulle stesse mosse già analizzate (ebbene sì, avevo letto gli insegnamenti di Kotov, ma era più forte di me!) e alla fine commettevo l’errore fatale. Avevo compreso i miei limiti e così cercavo in tutti i modi di evitare di infilarmi nelle posizioni troppo complesse da analizzare preferendo il gioco manovrato all’attacco alla baionetta. Ma spesso il mio avversario non era d’accordo e iniziava lui a complicare il gioco.

Leggendo l’ultima fatica letteraria di Raul Montanari, dedicata agli scacchi, ho preso atto che il metodo di calcolo suggerito dalla trilogia di Kotov (si analizza una sola volta, ramo dopo ramo senza mai ricominciare daccapo!) a lui ha giovato molto (almeno è riuscito a ritrovare la sua automobile in un megaparcheggio… ). Io non posso dire altrettanto perché ancora oggi, se non ci fosse mia moglie accanto a me, potrei girare a vuoto per ore senza vedere la mia auto nemmeno se per miracolo capitasse innanzi ai miei occhi.

Mi resi conto che non c’era nessun manuale in grado di insegnare a calcolare con la precisione di Alekhine, Fischer o Tal, campioni che possedevano una straordinaria memoria visiva e un grande intuito, doti indispensabili, assieme a una buona dose di lucidità mentale e di autocontrollo per diventare campioni. A volte poi mi accorgevo che tutta la fatica spesa per calcolare un complicato sacrificio era stata inutile. A chi non è mai capitato di perdersi in un lungo calcolo per poi scoprire nel post partita che esisteva una soluzione più semplice? Il grande campione del passato, Richard Réti a un dilettante che gli chiedeva quante mosse riuscisse a calcolare in una posizione complicata, rispose: “spesso neanche una”. E allora, come mai Réti era uno dei più forti scacchisti della sua epoca?

A volte, ripensando al passato, mi viene in mente l’insegnamento del mitico Korchnoi, soprannominato Viktor il Terribile, secondo il quale “gli scacchi non si imparano, si comprendono” (sempre tagliente il campione di Leningrado, anche quando coniava i suoi aforismi!). Si tratta di un’affermazione forse apodittica che tuttavia, ahimè, contiene una buona parte di verità. Cerchiamo di capire perché.

Anni fa lessi un bel libro, “Il perfezionamento dello scacchista”, di Jacob Aagaard, maestro internazionale danese autore di numerosi testi scacchistici di successo. In uno dei primi capitoli si parlava dell’importanza del calcolo delle varianti. Ebbene, Aagaard ridimensionava il peso di quest’abilità portando come esempio lo stile di gioco di famosi GM della sua epoca (su tutti Kasparov, Fischer e Karpov). Sostiene Aagaard che i grandi campioni posseggono una dote fondamentale: “sanno dove sistemare i pezzi” e come sfruttare le debolezze della posizione avversaria. Pertanto, vincono soprattutto grazie ad una superiore comprensione posizionale del gioco.

E la tattica? E il calcolo delle varianti? Secondo Aagaard i campioni calcolano il giusto necessario dopo aver “compreso” a fondo la posizione. Ecco spiegato, esemplifica Aagaard, perchè Kasparov riusciva a sconfiggere il funambolico Shirov ed altri fortissimi GM a lui superiori sul piano del puro calcolo.

Ma come si fa a migliorare la comprensione del gioco? Aagaard in un successivo capitolo ci spiega meglio le sue idee. Egli parte dal presupposto che gli esseri umani, quando affrontano un gioco complesso come gli scacchi, non possono calcolare tutto con precisione matematica e pertanto, dovendo raggiungere gli obiettivi prefissati, devono necessariamente rifarsi ai modelli (oggi diremmo ai “pattern”) e alle regole generali che troviamo in ogni buon manuale, frutto dell’esperienza di secoli di gioco. Naturalmente, egli scrive, le regole generali non sono dogmi, ma possono considerarsi delle “quasi verità” e vanno comunque adattate alla situazione concreta.

Nella parte finale del libro, l’autore illustra la sua concezione di “calcolo” e ci spiega la sua reale importanza. A suo avviso, l’abilità tattica è indispensabile ad evitare gravi errori nella realizzazione di idee posizionali. Oppure ci può aiutare a destreggiarsi all’interno di varianti complicate. Occorre migliorare le nostre capacità di calcolo, egli afferma, per raggiungere gli obiettivi prefissati, i quali vengono sempre prima di ogni tatticismo.

Questa teoria è una delle tante che possiamo trovare negli studi sul mediogioco, ma contiene, a mio avviso, alcuni importanti spunti di riflessione.

Se osserviamo attentamente come i grandi campioni affrontano le partite blitz o rapid ci accorgiamo che la loro abilità nel collocare i pezzi nelle case migliori, cercando di indebolire la posizione avversaria e di sfruttare ogni imprecisione, giunge ai massimi livelli.

Non a caso, giocatori posizionali come il mitico Capablanca e l’ex campione del mondo Tigran Petrosian erano imbattibili nelle partite blitz. Non potendo materialmente calcolare a fondo le varianti, i G.M. muovono i pezzi con la massima calma riflettendo pochi secondi per ogni mossa perché, nelle partite blitz, tre o cinque minuti di tempo con pochi secondi di incremento per ogni mossa, devono bastare per tutta la partita.

È evidente che a guidare la loro mano è l’abilità strategica e l’intuito posizionale. Alla fine dell’apertura essi si fermano e riflettono anche 30-40 secondi o più per elaborare il piano di gioco (nelle partite a tempo lungo questa fase può durare anche un quarto d’ora o di più, se necessario). Nelle partite blitz nessuno si azzarda a entrare in grandi complicazioni o a effettuare sacrifici rischiosi perché, non avendo tempo per calcolare bene, si rischierebbe di perdere in poche mosse la partita. E la forza tattica, e l’abilità di calcolo? Ebbene, concordiamo con Aagaard, la tattica è destinata a prevalere nelle posizioni “forzanti” per concretizzare, ad esempio, un vantaggio strategico decisivo.

Ecco un esempio tratto da una recente partita blitz tra due grandi maestri che non hanno bisogno di presentazioni: l’ex campione del mondo Magnus Carlsen e il giovane talento indiano Arjun Erigaisi. Hanno entrambi un punteggio ELO superiore ai 2800 punti (Erigasi supera addirittura il punteggio dell’attuale connazionale Gukesh, divenuto da poche settimane campione del mondo). Il livello tecnico raggiunto dai due contendenti in questa partita, con appena 3 minuti a disposizione oltre incremento, è davvero eccezionale:

In una est-indiana in contromossa Carlsen procede con l’attacco classico sull’ala di re, Erigaisi contrattacca al centro e sull’ala di donna. Carlsen consolida la posizione e prosegue l’attacco con mosse precise costringendo l’avversario a trovare le giuste manovre difensive, poi segue una complessa fase tattica durante la quale Carlsen semplifica la posizione per portarsi in un finale vinto con due pedoni in più. Erigaisi combatte colpo su colpo e, con pochi secondi a disposizione, riesce a sfruttare alcuni errori del norvegese e si riporta in parità. Adesso (dal minuto 8 fino alla fine) è un susseguirsi di emozioni e ribaltamenti di fronte. Anche Erigaisi si crea un pedone passato sulla colonna “c” e tutto si complica con grande suspance fino alla fine. La freddezza di entrambi i giocatori è ammirevole, entrambi muovono i pezzi in una manciata di secondi come se sapessero in anticipo dove meglio devono posizionarsi: non c’è tempo per calcolare, bisogna decidere subito cosa fare. Gli errori da ambo le parti si susseguono, ma è inevitabile con pochi secondi sull’orologio; la barra laterale di Stockfish sale e scende come impazzita dopo ogni mossa. L’intuito gioca un ruolo decisivo, eppure, dietro l’apparente semplicità delle manovre, si nota lo studio profondo del mediogioco e dei finali.

I principianti, invece, anche nelle posizioni più semplici, iniziano a calcolare varianti su varianti perdendo di vista la situazione generale. A tutti è capitato di immergerci in un calcolo serrato di lunghe complicazioni, ipotizzando improbabili sacrifici e controsacrifici, ma, (si chiede Aagaard) chi ci assicura che stiamo individuando le mosse giuste, comprese le migliori risposte del nostro avversario? Insomma, la domanda da porsi è: cosa stiamo calcolando? Abbiamo davvero “compreso” la posizione? Magari, mentre sprechiamo infinite risorse nell’esame di varianti complicate, perdiamo di vista una linea semplice che ci assicura un finale superiore o un vantaggio strategico decisivo.

In effetti, ben pochi grandi scacchisti possono vantare la visione combinativa di campioni come Alexander Alekhine, Garry Kasparov o Michail Tal. Lo stesso mitico “mago di Riga” a volte si perdeva nel labirinto che aveva ideato con un sacrificio di materiale. Egli ne era consapevole e sfidava l’avversario a venirne a capo davanti alla scacchiera con l’orologio che scandiva inesorabile i minuti trascorsi.

All’estremo opposto troviamo gli ex campioni del mondo Anatoly Karpov, Tigran Petrosian, Vassily Smislov, Michail Botvinnik e, sotto certi aspetti, il mitico Bobby Fischer, i quali badavano anzitutto a posizionare al meglio i pezzi, a farli collaborare tra di loro, ad acquisire vantaggi in vista del finale e calcolavano solo quando era davvero necessario.

Volendo trovare una sintesi tra queste (solo apparentemente) opposte visioni scacchistiche, possiamo dire che la strategia e la tattica nel gioco degli scacchi sono abilità strettamente collegate tra loro e ogni mossa deve rispettare sia i principi generali che le necessità tattiche. Ogni forte maestro gioca con il suo stile, il suo temperamento e imprime alla partita il suo marchio di fabbrica. In certi momenti pianifica, in altri calcola a fondo. Botvinnik (autentico “patriarca” della scuola sovietica) riteneva che, durante una partita, quando tocca all’avversario muovere è il momento di pianificare (ovvero migliorare la comprensione strategica) mentre occorre calcolare più analiticamente quando tocca a noi trovare la mossa più forte.

Kasparov preferiva calcolare sempre, sia nel mediogioco che nel finale, non fidandosi completamente del suo (pur straordinario) intuito, mentre Karpov, il suo eterno rivale, preferiva lavorare a fondo sulla comprensione posizionale con l’intento primario di togliere all’ avversario ogni risorsa o controgioco.

Michail Tal nei suoi anni d’oro prediligeva le posizioni taglienti e calcolava a fondo ogni mossa puntando dritto al sacrificio di materiale pur di poter sferrare un attacco sul Re. Una volta, durante il match mondiale del 1960 contro Botvinnik, aveva analizzato in profondità una posizione complessa e nella revisione post-partita provò a sciorinare le incredibili varianti che aveva visto se avesse deciso di giocare una mossa piuttosto azzardata. Tuttavia, il campione del mondo l’interruppe facendogli notare che se avesse giocato quella mossa egli avrebbe semplicemente cambiato le donne, spinto il pedone x e messo le torri sulle colonne y e z entrando in un finale patto. Tal dovette ammettere che Botvinnik aveva ragione e lui aveva sprecato solo preziose energie: ecco due metodologie diametralmente opposte di concepire il mediogioco.

Orbene, assodato che la tattica ci serve solo dopo aver compreso a fondo la posizione, come possiamo migliorare nel calcolo delle varianti? Gli esperti ritengono che gli esercizi tattici basati sulle partite giocate dai maestri vanno più che bene: ci sono molti siti web che ne propongono a iosa ed è molto utile sforzarsi di risolvere posizioni che prevedono sacrifici, manovre per scardinare l’arrocco, attacchi doppi, inchiodature, sovraccarichi, deviazioni, ecc.

Tuttavia, ricordiamoci che, come abbiamo visto in precedenza, di fronte a una posizione complessa ognuno ragiona in modo diverso. E a volte certe scelte, apparentemente strane, sfuggono alla nostra comprensione. È il caso delle cosiddette “mosse silenziose”, quelle che noi comuni mortali non riusciamo a comprendere perché spesso hanno una funzione esclusivamente profilattica, cioè mirano a “prevenire” possibili minacce. Gli specialisti in questo campo sono stati Aaron Nimzowitsch e poi il suo erede naturale, l’armeno Tigran Petrosian del quale si diceva che amava togliere dalla testa dell’avversario certe idee prima ancora che gli balenassero nella mente.

Altre volte, in una situazione di chiaro vantaggio o molto promettente, i G.M. consolidano la posizione lasciando che sia l’avversario a sbilanciarsi commettendo qualche imprecisione. Insomma, ogni grande scacchista realizza il proprio obiettivo in base al talento individuale, alla propria esperienza, alle superiori capacità posizionali o di calcolo.

Il problema di “come” migliorare è anch’esso relativo e non trova soluzioni univoche. L’ideale sarebbe valorizzare i propri punti forti e migliorare le proprie debolezze, ma non tutti ci riescono pienamente, anche dopo un lungo lavoro di perfezionamento.

Ciò che mi sento di consigliare ai principianti, sulla base della mia personale esperienza, è di non dedicare tutte le energie allo studio dei libri sulle aperture. È sufficiente inizialmente memorizzare gli schemi principali di gioco quanto basta per evitare errori clamorosi o tranelli in cui si può cadere per inesperienza. Lo studio meticoloso delle aperture è un’arma a doppio taglio: se dimentichiamo la mossa teorica (come capitava a me molto spesso) tendiamo ad avvilirci e a riflettere a lungo tentando di imbroccare la strada giusta. Se è l’avversario (anche questo capitava spesso) a portarci fuori strada, scopriamo che non sempre c’è una confutazione immediata e non serve a nulla sprecare tempo per trovarla.

La verità è che, sia in apertura che nel mediogioco, non esiste una sola linea giocabile. Il computer ci ha insegnato a considerare molte più strade di quante i libri fossero in grado di elencare e ha rivalutato varianti di apertura ingiustamente dimenticate da anni. L’importante, a mio avviso, è puntare a raggiungere un armonioso sviluppo dei pezzi, in modo da poter affrontare posizioni nel centropartita dove ci sentiamo più a nostro agio. Ciò che conta è, a mio parere, saper scegliere difese che si addicono al nostro stile di gioco e, con il Bianco, aperture solide, cercando di avere un’idea chiara di come manovrare nel mediogioco.

Imparare, attraverso lo studio delle partite dei GM, la difesa Francese o la partita Spagnola o la difesa Nimzoindiana è molto più utile, ai fini della comprensione generale del gioco, della memorizzazione delle infinite complicazioni di qualche dubbio controgambetto, al solo scopo di preparare una trappola al nostro prossimo avversario.

In generale, come in ogni arte o sport, per migliorare negli scacchi occorre impegno, allenamento e dedizione.

Lo studio approfondito delle aperture aumenterà in base al livello progressivamente raggiunto, fermo restando che studiare i manuali non basta ad elevare il nostro livello di gioco. Il grande Tigran Petrosian consigliava di studiare le aperture scorrendo in successione (anche in modo non analitico) molte partite dei GM fino alla fine, in modo da studiare i piani di gioco e le manovre tipiche dei finali.

Se siete stufi di leggere consigli e considerazioni astratte, vi mostro adesso una partita blitz spettacolare giocata al Norway Chess nel 2023 tra due “pesi massimi”, l’ex campione del mondo Magnus Carlsen e neo laureato campione del mondo, l’indiano Dommaraju Gukesh:

Ebbene, in questa partita il grande norvegese, finito in una posizione inferiore, combatte con le unghie e con i denti per strappare un pareggio contro il giovanissimo (allora diciassettenne) avversario. Muovono entrambi con sicurezza e rapidità mantenendo una straordinaria calma fino all’ultima mossa. Nulla a questi livelli è lasciato al caso o alla “fortuna”, ammesso che esista davvero nel gioco degli scacchi.

Alla fine lo sconfitto (non vi anticipo nulla al riguardo) si congratulerà con il vincitore in modo sportivo e sincero.

È impossibile, per noi comuni mortali, raggiungere un simile livello di gioco, ma nessuno ci toglierà mai il piacere di coltivare la passione scacchistica in ogni suo aspetto. Lo studio delle partite dei grandi campioni, la lettura di classici intramontabili, le battaglie a tempo rapido tra i GM, da ammirare su vari canali YouTube, restano non solo un modo insostituibile di allenarsi e migliorare, ma soprattutto un vero e proprio godimento spirituale che è alla portata di tutti, dilettanti e professionisti, schiappe e campioni, esperti e principianti.

Gli scacchi restano un gioco inesauribile che nessun software o motore informatico per fortuna è riuscito a banalizzare. E, ricordiamolo, è anche un’arte che, se coltivata, può dare soddisfazioni ad ogni età a prescindere dal livello di gioco raggiunto.

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