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ovvero: Reuben fine, Bobby Fischer e la psicologia nel gioco degli scacchi

Chi non si è mai chiesto cosa si nasconda dietro la mente di un campione di scacchi? Quali demoni interiori e quali fantasie alimentano la loro ossessione per la vittoria? Reuben Fine, nel suo libro “La psicologia del giocatore di scacchi”, che ho avuto modo di leggere l’estate scorsa, ci offre una chiave di lettura affascinante, svelandoci l’anima tormentata di alcuni dei più grandi protagonisti della storia degli scacchi.
Fine affronta la materia con un approccio tipicamente psicoanalitico (egli si è dedicato alla psicoanalisi dopo essere stato per anni uno dei più forti giocatori del mondo) e si concentra sulle motivazioni inconsce e i conflitti interiori, offrendo un’interpretazione interessante, anche se controversa, delle menti dei giocatori di scacchi. Egli scriveva negli anni ’70, quando la psicoanalisi era una disciplina molto influente, e, utilizzando la sua grande esperienza di psicologo e scacchista, ci guida in un viaggio attraverso l’inconscio dei campioni, svelandoci come gli scacchi possano essere un rifugio dalla realtà, un campo di battaglia interiore, un modo per proiettare le proprie paure e le proprie ambizioni. Oggi, sebbene alcune sue teorie possano apparire datate, esse continuano a stimolare il dibattito sul rapporto tra psicologia e gioco degli scacchi.
Secondo Fine, i grandi campioni appartengono a due fondamentali categorie: “eroi”, come Morphy e Alekine, che vedono negli scacchi un modo per soddisfare le proprie fantasie di onnipotenza, e gli “anti-eroi”, come Capablanca, Lasker e Euwe, che considerano il gioco come una sfida intellettuale tra le tante possibili.
Attraverso la descrizione delle loro vite e delle loro carriere, Fine mette in luce come l’aggressività, il narcisismo e la paura del fallimento siano tratti comuni a molti campioni.
Successivamente, esplora i casi di psicosi tra i giocatori di scacchi, a partire dal celebre campione americano dell’800 Paul Morphy e sottolinea come la pressione per la vittoria, il simbolismo del gioco e la fragilità emotiva di alcuni individui possano portare a svariati disturbi mentali.
Interessante la parte in cui l’Autore parla del simbolismo degli scacchi, riprendendo ed espandendo le teorie di Ernest Jones.
Il Re, figura centrale degli scacchi e al contempo debole, incarna l’ambivalenza del giocatore nei confronti del potere e dell’autorità. La Regina, introdotta in Europa nel Duecento, simboleggia l’evoluzione del ruolo femminile nella società occidentale. I Pedoni negli scacchi sono rappresentati come figure “minori”, ma con la possibilità di essere promossi a pezzi più importanti (tranne che a Re) e quindi, secondo Fine, simboleggiano le aspirazioni e le frustrazioni del giocatore. La loro natura “sacrificabile” può riflettere l’atteggiamento dello scacchista nei confronti del rischio e del successo.
Negli ultimi decenni, l’evoluzione delle neuroscienze cognitive ha arricchito ulteriormente l’analisi del gioco degli scacchi. Innumerevoli studi hanno evidenziato come il cervello gestisca il processo decisionale, la risoluzione dei problemi e come viene attivata la memoria durante una partita. Le ricerche sull’attività cerebrale dei grandi maestri mostrano come l’esperienza e l’allenamento modellano il funzionamento del cervello, contribuendo a una comprensione più completa delle abilità necessarie per eccellere. Anche l’informatica applicata al gioco degli scacchi (scienza allo stadio embrionale all’epoca di Fine) ha avuto un enorme sviluppo e oggi si può ben dire che la mente umana è stata superata nella strategia e nel calcolo delle varianti dai più evoluti software scacchistici.

Molto interessante è l’analisi di Fine della psicologia e del gioco di Bobby Fischer, divenuto campione del mondo qualche tempo prima della pubblicazione del libro di Reuben Fine.
L’autore analizza la personalità complessa e controversa di Fischer, la sua genialità scacchistica e le sue difficoltà relazionali. Sottolinea come l’infanzia difficile, l’abbandono dei genitori e la dedizione esclusiva agli scacchi abbiano contribuito a plasmare il carattere di Fischer, rendendolo un individuo solitario, diffidente e ossessionato dalla vittoria.
Alcune delle osservazioni di Fine sulla complessa personalità di Fischer sembrano sorprendentemente attuali, anche a distanza di oltre mezzo secolo. Tuttavia, le sue valutazioni sul gioco e sull’impatto storico del campione americano risultano oggi parziali, stridenti con il mito che circonda Fischer e l’ammirazione che continua a suscitare tra gli scacchisti di ogni ordine e grado.

La distanza temporale e l’evoluzione della nostra comprensione degli scacchi hanno messo in luce sfumature e complessità che Fine non aveva potuto cogliere, anche se il dibattito sulle qualità e il ruolo di Fischer nella storia degli scacchi è ancora aperto.
Pur riconoscendo l’eccezionale talento di Bobby Fischer, Fine esita a posizionarlo al di sopra di grandi campioni del passato come Steinitz, Lasker e Alekhine. In particolare, l’autore contrappone lo stile di gioco di Fischer a quello di Alekhine, sottolineando come il primo mirasse alla vittoria a ogni costo, a differenza del secondo che, secondo Fine, apprezzava maggiormente l’estetica del gioco. Tuttavia, Fine non considera che, all’epoca di Fischer, ad eccezione di pochi campioni come Bronstein e Tal, la ricerca della bellezza del gioco non era affatto una priorità. Botvinnik, ad esempio, aveva introdotto da tempo un approccio meno romantico e più scientifico e rigoroso nella preparazione scacchistica, un approccio che è diventato dominante nella pratica moderna.
Nonostante riconosca il suo genio, Fine sottolinea come le innovazioni di Fischer nel gioco fossero limitate dalla profonda analisi a cui le aperture erano state da tempo sottoposte, mentre la forza del campione americano risiedeva, a suo avviso, nell’abilità nel cogliere e sfruttare gli errori degli avversari, piuttosto che nell’inventare nuove linee di gioco.
Smentendo il mito di Fischer come giocatore invincibile, disposto a combattere fino all’ultimo pedone, Fine sottolinea come il campione americano, contrariamente a quanto comunemente ancora oggi si crede, ricercava spesso posizioni di parità nelle aperture per poi approfittare dell’errore dell’avversario e sferrare l’attacco decisivo. Il famoso match contro Spasskij, pur vinto nettamente, aveva dimostrato, sostiene l’Autore, che anche Fischer poteva commettere errori e che la sua vittoria finale non era così scontata.
Tuttavia, alcune di tali affermazioni suscitano perplessità. Fine sembra trascurare l’enorme evoluzione del gioco del campione americano nel periodo 1967-1972, anni nei quali Fischer aveva letteralmente sgretolato tutti i suoi avversari infliggendo loro (basti pensare ai match contro Taimanov, Larsen e Petrosian giocati prima della sfida con Spasski) sconfitte a volte umilianti. Il suo gioco si era affinato, era divenuto più duttile, egli aveva ampliato il suo repertorio di aperture fino a giocare contro Spasski il gambetto di donna con il Bianco e la difesa Pirc e Alekine con il Nero (aperture mai adoperate in precedenza!) ed aveva perfezionato la sua tecnica del finale, già prodigiosa, portandola a livelli di precisione e accuratezza mai visti in precedenza.

Certamente Fischer commise degli errori durante il match vittorioso contro Spasski, ma stava pur sempre affrontando il campione del mondo in carica ed era sottoposto ad una continua pressione sia da parte del suo avversario, che usufruiva di un team di analisi di prim’ordine e di un apparato burocratico a sua disposizione, sia (e principalmente direi) dal suo Paese, dalla stampa, e dal mondo esterno.
Profonda e condivisibile appare invece l’analisi del campione americano sotto il profilo psicologico e umano. Fine descrive Bobby Fischer come un “genio unilaterale” la cui intera esistenza ruotava attorno agli scacchi, a discapito di altri interessi o relazioni sociali. Dietro la facciata di arroganza, Fine individua una profonda insicurezza e un forte senso di isolamento in Fischer. Gli scacchi sono il suo unico mezzo di contatto con gli altri, ma la sua ossessione per la vittoria lo porta a distruggere questo contatto.
Secondo Fine, la condotta di Fischer prima e durante l’incontro con Spasskij, tra cui la rinuncia alla seconda partita, era stata dettata da una profonda paura e fragilità emotiva, mascherate da un’apparente sicurezza di sé.
L’autore evidenzia le difficoltà di Fischer nei rapporti interpersonali, in particolare con le donne. La sua avversione per il genere femminile e la sua incapacità di instaurare relazioni significative sono viste come un sintomo di un profondo disagio emotivo.
Fine colloca Fischer nel gruppo dei campioni “eroi”, come Morphy e Alekhine, figure carismatiche che incarnano i desideri e le ambizioni dei propri ammiratori. La sua vittoria sul campione russo assumeva così un significato simbolico di rivalsa dell’occidente sul blocco sovietico.
Inoltre, Fischer, con la sua avversione per l’intellettualismo e la sua dedizione totale al gioco, incarnava la nuova era degli scacchi, visti non più come un passatempo elitario ma come uno sport popolare e competitivo: il successo negli scacchi non era più prerogativa di una élite intellettuale, ma diveniva alla portata di chiunque abbia talento, dedizione e spirito combattivo.
Interessante, infine, il confronto tra Bobby Fischer e altri sportivi: Fine paragona Fischer ad altri campioni famosi per il loro talento e la loro personalità controversa, come Muhammad Ali. La sua aggressività, la sua determinazione e la sua ricerca della vittoria a ogni costo lo rendono un’icona del nuovo sport-spettacolo.
In conclusione, dall’analisi di Bobby Fischer sviluppata da Reuben Fine nel suo libro, scaturisce un ritratto complesso e sfaccettato di un genio controverso. Fischer emerge come un individuo eccezionalmente dotato nel gioco, ma al contempo profondamente segnato da un’infanzia difficile e da una serie di conflitti interiori irrisolti. Sebbene Fine non consideri Fischer uno dei più grandi campioni della storia, egli ritiene che la sua figura incarni le contraddizioni e le sfide della nuova era degli scacchi, proiettati verso un futuro di popolarità e competitività senza precedenti.
Io credo che quest’analisi cruda e profonda del lato umano e psicologico di Bobby Fischer sia la parte migliore di questo libro (le successive oscure vicende del campione americano hanno d’altronde dimostrato la correttezza dei giudizi espressi da Fine) mentre la valutazione “tecnica” del suo gioco risente inevitabilmente della diversa epoca in cui hanno giocato entrambi (si ricorderà che Fine è stato uno dei più forti scacchisti del mondo negli anni ’30 e ‘40 del ‘900 e negli anni ’70 aveva da tanto tempo abbandonato l’attività agonistica).
Dopo tutto, anche i più grandi giocatori della sua epoca e del periodo successivo fino ad oggi (non ultimo Garry Kasparov che ne delinea il ritratto umano e sportivo ne “I miei grandi predecessori”), hanno riconosciuto l’assoluta eccellenza del gioco di Fischer e lo smisurato talento del campione americano, considerandolo meritatamente uno dei più grandi scacchisti della storia.

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