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Carlsen? Non si ritirerà mai

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Ho trovato molto intelligente e originale il pezzo di Gianfranco Castiglioni su un possibile ritiro di Carlsen. Nel commentarlo, per semplicità, porrò il tema di un “ritiro” inteso come definitivo, come ammicca il titolo, anche se Gianfranco ha specificato che lui pensava piuttosto a un ritiro temporaneo, dopo che Carlsen ha detto di voler prendere in considerazione solo un giocatore della generazione di Firouzja come sfidante mondiale.
Castiglioni porta esempi suggestivi di campioni che hanno abbandonato precocemente la carriera. C’è da osservare che almeno per alcuni di loro c’è da ipotizzare una perdita di sicurezza, oltre che di quella gratificazione che giustifica i sacrifici dell’allenamento, la vita girovaga e altri incomodi.
Borg, che lasciò il tennis a 26 anni, non sopportava l’idea di non essere più il numero uno dopo l’avvento di McEnroe, tanto che fu proprio quest’ultimo a cercare di convincerlo a ripensarci, con un atteggiamento generoso.

Quello che è successo al nostro adorato Fischer è difficile da spiegare; oltre agli aspetti patologici veri e propri, ci sono le interviste in cui dichiarava che gli scacchi avevano esaurito le loro potenzialità creative, la proposta del Fischer Random Chess eccetera. Insomma: non si divertiva più.
Nei commenti al pezzo viene citato anche Carlos Monzon: ma Monzon era ormai logoro quando si ritirò da campione imbattuto. Per combattere doveva fare iniezioni di novocaina alle mani, nell’ultimo match era stato atterrato da Valdez, insomma la boxe per lui era ormai meno attraente di quel jet set che l’aveva cooptato, inclusa la prospettiva grottesca di una carriera nel cinema, bellissime donne, l’amicizia con Alain Delon e tutto il giro di Montecarlo.
Un esempio che trovo interessante, sempre in ambito pugilistico, è quello di Rocky Marciano. Come sapete, Marciano si ritirò con un record sbalorditivo e ineguagliato: 49 incontri tutti vinti, di cui 43 prima del limite. Solo sei pugili erano rimasti in piedi davanti a lui. Non solo, ma all’orizzonte non c’era nessuno sfidante serio: Marciano aveva occupato nei primi anni ’50 una nicchia in un momento di crisi dei pesi massimi, dopo il ritiro di Joe Louis e prima dell’avvento dei nuovi talenti neri come Floyd Patterson e Sonny Liston. Gli offrirono cifre iperboliche ma lui rifiutò di continuare, dimostrando una saggezza abruzzese di cui, come italiano, sono sempre stato orgoglioso.

Carlsen mi sembra ancora innamoratissimo degli scacchi.
Per contrasto, ho ripensato all’analisi che Fine fece della struttura psicologica di Spasskij, dicendo che sembrava quasi incapace di trarre piacere dalle vittorie. Basta guardare uno dei tanti video su YouTube che mostrano la cerimonia della proclamazione ufficiale di campione del mondo nel ’69: imprigionato in quella ridicola corona Spasskij appare cupo, così infelice da essere ancora più affascinante; che differenza con il sorriso radioso di Tal o con il Fischer spettinato che ride quasi sguaiatamente a Rejkjavik!
Carlsen sembra trarre un piacere intensissimo dalla sua immagine di campione-star. Ci sono video in cui è circondato da belle ragazze, beve, gioca a tutte le ore, in tutti i modi e in tutte le forme. La dichiarazione su Firouzja è parsa pura arroganza (peraltro giustificata!), come lo era aspettare che Nepomniatchchi tornasse dalle sue nevrotiche assenze dalla scacchiera durante il mondiale: lo voleva vedere bene in faccia dopo che aveva fatto le cappelle. I dialoghi post mortem fra i due, deliziosi dopo le prime patte, sono diventati penosi quando il russo ha cominciato a perdere e a essere sempre più sotto, anche con il linguaggio del corpo: nelle chiacchiere finali la sua postura era quasi supplichevole, quella di Carlsen impaziente.
E poi è arrivata l’esibizione di strapotere al Tata Steel.
Dovremo “sopportarlo” ancora a lungo e sarà divertente tifargli contro, come succede con i veri dominatori.

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