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L’Armata Rossa… ricordiamocelo!

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“Ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata Rossa
di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita”

Ernest Hemingway

il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa, sotto il comando del maresciallo Konev, pose fine all’esistenza del più grande campo di concentramento del Terzo Reich…

I prigionieri di Auschwitz sono stati liberati da quattro divisioni di fanteria dell’Armata Rossa. Nella prima linea offensiva avanzavano i soldati della centesima e centosettesima divisione. Nell’ultima, serviva il maggiore Anatolij Shapiro, il cui corpo d’assalto fu il primo a varcare la soglia di Auschwitz. Egli stesso ricorda:

Nella seconda metà del giorno, entrammo nel territorio del lager passando per le porte principali su cui era affitto il motto avvolto con filo metallico: “Il lavoro rende liberi”. Accedere all’interno delle baracche senza una benda per coprire la bocca e il naso era impossibile. I letti a castello erano disseminati di cadaveri. Da sotto i letti talvolta uscivano scheletri semivivi che giuravano di non essere ebrei. Nessuno osava credere in una possibile liberazione.

All’improvviso io vidi sulla strada, vicino al campo, delle sagome in abiti rossi e bianchi. Ciò avvenne intorno alle cinque del pomeriggio. Inizialmente pensammo al ritorno dei nostri detentori. Io corsi fuori per vedere chi fosse e quale fu la nostra gioia quando ci accorgemmo che si trattava dell’intelligence sovietica: agli abbracci e ai baci non c’era fine. Ci convinsero ad uscire spiegandoci che non si poteva più rimanere lì, dato che non era nota con precisione la posizione del nemico. Ci allontanavamo di qualche passo per poi tornare di nuovo indietro.

I tedeschi il 18 gennaio cacciarono tutti quelli che potevano ancora camminare. Tutti gli altri, deboli, malati, li lasciarono. Alcuni,fra i rimanenti che potevano ancora muoversi, fuggirono quando il nostro esercito si avvicinò al lager. I nostri spedirono al territorio del campo le divisioni mediche 108 e, 322 e la mia divisione, 107. I battaglioni medico-sanitari di queste tre divisioni si distribuirono prontamente secondo l’ordine ricevuto. Anche l’alimentazione venne organizzata dalle stesse divisioni. Vennero inviate cucine da campo.

C’erano dei cancelli chiusi a chiave, non ricordo se si trattasse dell’ingresso principale o di altro. Ordinai di rompere le serrature. Non c’era nessuno. Percorremmo duecento metri circa e incontro a noi corsero i prigionieri, 300 persone in camicioni a righe. Noi ci mettemmo all’erta, sapevamo che i tedeschi si camuffavano. Ma allora si era trattato proprio di prigionieri. Piangevano, ci abbracciavano. Raccontavano di come in quel luogo avessero annientato milioni di persone. Tuttora ricordo quando ci dissero che da Auschwitz avevano spedito 12 vagoni di sole carrozzine per bambini.

Io e il mio reggimento ci avvicinammo all’entrata quando era già buio, non entrammo quindi nel territorio del lager ma ci disponemmo in posizione di guardia ai suoi confini. Ricordo che là faceva molto caldo, pensammo persino che i tedeschi si erano costruiti una dimora calda e che noi gli eravamo arrivati proprio in casa. Il giorno successivo iniziò la pulizia. Li c’era un enorme villaggio, Bzhezinka, con solide case di mattone. Quando noi prendemmo a muoverci in quella direzione, ci spararono addosso da qualche edificio. Ci nascondemmo a terra e contattammo il comando: chiedevamo il consenso di colpire l’edificio con l’artiglieria, di abbatterlo, per poter così proseguire l’avanzata. Ma dall’altra parte all’improvviso ci risposero che l’artiglieria non poteva entrare in azione, perché quell’edificio era un lager e nel lager c’erano persone e quindi noi dovevamo evitare ogni tipo di sparatoria. Solo allora ci rendemmo conto di che recinzione fosse.

Entrammo nell’edificio di mattone e sbirciammo nelle camere, le porte non erano chiuse. Nella prima stanza c’erano mucchi di vestiti per bambini: piccoli palto, pantaloni, golfini. Molti, con macchie di sangue. In un’altra sala c’erano cassette piene di corone e protesi dentali d’oro. In una terza, vi erano mucchi di capelli tagliati. Infine una donna (una prigioniera del lager – RBTH) ci condusse in una camera stracolma di lussuose borsette da donna, abajour, carte, borsellini e altri oggetti in pelle. Ci disse: “tutto questo è fatto di pelle umana”.

Nel lager ci sono tante baracche per bambini. Lì ci hanno portato bambini ebrei di diverse età (gemelli). Su di loro, come su conigli, hanno fatto diversi esperimenti. Ho visto come a un ragazzino di 14 anni hanno iniettato del cherosene per qualche scopo “scientifico”. Dopodiché gli hanno tagliato un pezzo di corpo per spedirlo a a Berlino, a un laboratorio. A lui hanno attaccato un altro pezzo di corpo. Ora il ragazzino si trova in ospedale tutto coperto di piaghe profonde, in putrefazione. Per il lager va avanti e indietro una ragazza carina, giovane. Mi stupisco di come queste persone non siano impazzite.

Il 5 febbraio ci siamo mossi in direzione di Cracovia. Lungo la via da un lato si susseguivano fabbriche gigantesche, costruite dai prigionieri morti da tempo in seguito al lavoro massacrante. Dall’altro lato invece, c’era un altro grande lager. Vi entrammo e trovammo malati, che proprio come noi, solo per il fatto di essere riusciti a sopravvivere, non se n’erano andati coi tedeschi il 18 gennaio. Da lì proseguimmo oltre. Per molto ancora, lungo il nostro cammino, si dipanavano i cavi elettrici sui pilastri di pietra a noi così noti, simboli di schiavitù e morte. Ci parve che non saremmo mai riusciti ad uscire dal campo. Finalmente lo percorremmo del tutto e raggiungemmo il villaggio Vlosenjushchф. Lì trascorremmo la notte e il giorno successivo, il 6 febbraio, proseguimmo oltre. Sulla strada ci raccolse una macchina che ci portò fino a Cracovia. Siamo liberi, ma non riusciamo ancora a gioirne. Troppo è quello che abbiamo vissuto e troppe le persone che abbiamo perso.

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