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Campus Gaflei

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Alla memoria di Mario Vegetti

Settembre 2000, più o meno vent’anni fa. Mi metto in macchina di mattina presto per andare a Milano, in via Bazzoni, dove allora abitava Mario Vegetti. Siamo invitati entrambi a un grande convegno internazionale sulla filosofia di Platone, che si svolge nel principato del Liechtenstein, e Mario mi ha proposto di fare il viaggio con lui sulla sua Audi nuova fiammante. Benché non sia questo il luogo per parlare di Mario, non posso trattenermi dal dire almeno una cosa. Da quando Mario è mancato, un paio d’anni fa, il nostro “mondo piccolo” (qualcuno ha letto il delizioso romanzo di David Lodge, titolato in traduzione “Il professore va al congresso”, ma “Small World” in originale, satira esilarante del mondo accademico e delle sue meschinerie?) è sensibilmente più vuoto: privo della sua cultura, della sua umanità, della sua intelligenza, del suo spirito, della sua calorosa e coinvolgente risata, della sua straripante personalità.
Sarebbe stato più logico, visto che abito praticamente sulla strada per la Svizzera, che Mario venisse da me e non il contrario. Ma Mario era un milanese doc: un esponente caratteristico di quella “élite intellettuale progressista” che da alcuni anni sembra essere diventata il nemico numero uno di una inedita categoria di ignoranti; gli ignoranti fieri di esserlo (una volta almeno ci si vergognava). Ossia, il nuovo che avanza. Ma passiamo oltre. Il milanese doc usa poco la macchina, perché raramente sente l’esigenza di uscire dal centro di Milano. I pochi varchi che conducono fuori dalla cittadella fortificata sono il casello dell’autostrada A7, che si attraversa periodicamente per raggiungere la casa in Liguria; poi la stazione Centrale e gli aeroporti (possibilmente Linate), simili alle imboccature di un tunnel da cui a un certo punto si esce per ritrovarsi magicamente a Venezia, Firenze, Roma, Parigi, Londra. Inutile dire che il confine tra piazzale Lagosta e l’inizio di Fulvio Testi è saldamente presidiato dalle Colonne d’Ercole. Chissà che cosa c’è la fuori, che animali ci vivono, che cosa si mangia? Meglio non indagare (hic sunt leones). Durante il viaggio Mario mi chiese, a un certo punto, come mai sono nato a Seregno. Ho risposto con una vecchia battuta di Woody Allen: “Sai, in un momento della sua vita per lei così difficile non me la sono sentita di lasciare sola la mia mamma”.
Il convegno si svolge nel cosiddetto “Campus Gaflei”, una Università privata che ha sede in un grande albergo sulle pendici delle montagne poco sopra Vaduz. Per far apprezzare in pieno il finale di questa storia (dove, si tranquillizzino i lettori, protagonisti saranno come sempre gli scacchi) devo prendere un po’ di spazio per spiegare bene la situazione. Il convegno è stato organizzato, almeno in parte, con l’intenzione manifesta di promuovere la cosiddetta “scuola di Tübingen-Milano”, una linea di pensiero, prima solo tedesca e poi anche italiana, che tra gli anni ’50 e gli anni ’90 ha proposto una interpretazione tradizionalista, esoterica e ultrametafisica della filosofia di Platone: non senza l’intento dichiarato, almeno negli esponenti nostrani, di ricompattare fede e ragione contro le intemperanze atee e materialiste della cultura moderna. È vero che gli invitati sono molti e di varia estrazione. Ma nell’intenzione di alcuni organizzatori ciò che avrebbe dovuto andare in scena in Liechtenstein erano la consacrazione e l’apoteosi di quello che loro chiamavano pomposamente il nuovo (e definitivo, si intende) “paradigma ermeneutico”. Le cose in realtà andarono diversamente. Il nutrito gruppo di studiosi angloamericani, forte della supremazia linguistica e di un salutare e democratico spirito scientifico, prese subito il sopravvento, disinteressandosi completamente del conflitto ideologico sottostante, che la maggioranza di loro non era nemmeno riuscita a identificare. Di conseguenza, visto che anche i tedeschi sostanzialmente si chiamarono fuori, la disputa ideologica assunse un carattere parrocchiale: finì per riguardare, nel puro stile di don Camillo e Peppone, il drappello degli italiani: da una parte i laici, materialisti atei (e “comunisti” ); dall’altro i cattolici, metafisici e sanfedisti (e “fascisti” ). Inutile dire che appartenevo, con Vegetti, alla prima categoria. Vegetti comunista lo era davvero, come dimostra il suo impegno politico in quegli anni. Io invece ero finito tra i reprobi soprattutto perché avevo scritto cose molto critiche contro la scuola di Tübingen-Milano. Ma in un certo senso andava bene così, perché non ero allora, così come non lo sono adesso, né di destra né reazionario: dovendo scegliere se stare di qua o di là, non c’erano dubbi su quale parte avrei scelto.
Anche la sede dove eravamo aveva dei connotati ben precisi. L’università (che esiste ancora adesso, anche se non è più lì) sia chiama Accademia Internationale di filosofia (Internationale Akademie für Philosophie im Fürstentum Liechtenstein). Sulla sua pagina web si legge che l’Accademia non ha una posizione filosofica definita; ma poi si aggiunge che prende in considerazione le seguenti prospettive: “realismo morale non riduzionista”, “etica materiale dei valori e legge naturale”, “l’esistenza dell’anima umana”, il “teismo”, “l’esistenza di un dio creatore”, ecc. Insomma, tutto fa sospettare, oggi come allora, che si tratti di un feudo tradizionalista e conservatore. I soldi, come è probabile, provenivano direttamente dalla corona (detto per inciso, il ricchissimo sovrano del principato un bel giorno ci offrì nel suo sontuoso castello un rinfresco talmente misero da far rimpiangere crodino e patatine al bancone del bar qui sotto). Oltre a ciò, girando per il campus scopriamo che l’istituzione era stata attiva nella propaganda antisovietica e anticomunista, che era vicina a Radio Europa Libera, e che aveva collaborato in varo modo all’espatrio in occidente di cittadini dell’ex blocco sovietico. Infine, veniva ampiamente sottolineata, con documenti e proclami appesi alle pareti, l’opera meritoria che il Liechtenstein aveva compiuto nell’immediato dopoguerra, rifiutandosi di estradare numerosi cittadini dell’Est Europa che avevano collaborato con le truppe di occupazione naziste. Insomma, la faccio breve evitando di entrare in qualunque modo nel merito. Quello che conta è che l’impronta del luogo era chiaramente conservatrice e di destra; mentre noi siamo “progressisti e di sinistra” (chi più chi meno). Platone, tra la stupita incredulità degli anglosassoni, segue a ruota: il Platone del Campus Gaflei è il teologo metafisico e conservatore nume tutelare della Restaurazione; il Platone di Mario Vegetti è il leninista rivoluzionario che elimina la proprietà privata e collettivizza i mezzi di produzione. Insomma, il conflitto stazionava nell’aria, minaccioso, fin da subito.
E veniamo a parlare del rettore. Il rettore era allora un colto, distinto e cortese professore austriaco. Sarà perché parlava un perfetto italiano, ma con lo stesso accento e tono metallico che hanno le SS nei film di guerra, sarà perché eravamo suggestionati dall’atmosfera del luogo, sarà il tipico incarnato teutonico, a noi sembrava l’immagine specchiata del gerarca nazista scampato alle grinfie del Mossad. Bene, curiosando nell’atrio del campus scopro, praticamente al mio arrivo, la presenza in una bacheca di un libro sulla filosofia degli scacchi scritto dal rettore in persona. Sfogliando il libro noto con disappunto che l’esimio professore, probabilmente forte della sua conoscenza dell’italiano e del fatto che l’originale fuori d’Italia non è molto noto, aveva in più punti spudoratamente saccheggiato il “Chicco & Porreca”. Sia come sia, e anche perché la Schachphilosophie è un argomento di cui un po’ mi ero occupato anch’io, gli chiedo le ragioni di questo interesse. Lui mi spiega, molto semplicemente, che ama gli scacchi, e mi chiede se gioco anch’io. “Sì, qualche volta” rispondo con noncuranza. “Bene, dice lui, magari quando abbiamo un momento libero facciamo una partitina”. “Volentieri”. Poi ci accomiatiamo. Per tutta la durata del convegno nessuno dei due torna più sull’argomento. L’ultima sera mi si avvicina sorridendo e mi dice: “E dunque, le va ancora di fare quella partitina?”, “Ma certo”, rispondo. “Allora mi segua nel mio studio: vado a preparare tavolo e scacchi”. Mentre si allontana faccio in tempo a sibilare sottovoce a un amico e collega: “Guarda, ti conviene starmi vicino, e vedrai che stasera ci facciamo quattro risate”. L’atmosfera del convegno, date le premesse, era stata molto pesante. Un po’ di sano divertimento davvero non guastava. Entrati nello studio il rettore mi chiede (dovete sempre immaginare il fortissimo accento tedesco): “Lei conosce l’orologio di scacchi? Ha provato a usarlo?”. “Sì, dico io, qualche volta”. “Come preferisce, un quarto d’ora o dieci minuti?” Avrei voluto dire “facciamo cinque”, ma non volevo scoprire le carte. Vada dunque per dieci. Come prevedibile, fu un massacro. Partita dopo partita, il rettore via via realizzava in modo sempre più chiaro di essere stato raggirato; tuttavia, caparbio, non mollava. Alla fine, esausto, ha capito che non c’era verso e ha gettato la spugna. Sorridendo con eleganza, senza alcun segno di irritazione, mi dice, mettendomi una mano sulla spalla: “Eh bravo, complimenti, lei mi ha imbrogliato”. Poi siamo finiti a parlare di scacchi sorseggiando un brandy seduti su un divano. Il rettore aveva un Elo tra i 1800 e il 1900, ed era attivo nell’organizzazione dell’open di Vaduz, a cui mi invitò a partecipare a sue spese (ma purtroppo non sono mai riuscito ad andarci). Tra le altre cose, mi disse che aveva aiutato e ospitato nella sua università i fratelli Atlas (uno dei due, Valery, è maestro internazionale), arrivati lì dalla Bielorossia (in accordo con la politica del campus di cui ho detto).

Per chiudere, ancora due parole su Mario Vegetti. Mario amava il lavoro, ma apprezzava moltissimo anche l’aspetto ludico dell’esistenza: grande tifoso dell’Inter, appassionato giocatore di tennis, ma anche amante dei giochi da tavolo, tra cui il backgammon (nella sua traduzione della Repubblica di Platone ha coraggiosamente scelto di rendere il greco “petteia”, un gioco da tavolo che probabilmente prevedeva l’uso dei dadi, proprio con backgammon) e gli scacchi. Qualche anno dopo a Trento c’era con noi il maestro Alessandro Stavru, anche lui affiliato (sia pure in tempi diversi, esattamente come me) sia agli scacchisti sia ai “filosofi antichi” (come ci chiama scherzosamente un collega). Mario ha voluto vederci giocare lampo, ma dopo due minuti di ressa indiavolata in cui non riusciva nemmeno a capire chi muoveva che cosa, si è alzato con disgusto e se ne è andato via.
Ciao Mario.

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