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Nuvolari, il mantovano volante

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Nuvolari, il mantovano volante


Bravura, spericolatezza, fantasia: con questi elementi il pioniere dell'automobilismo costruì la sua leggenda. Campione di Mille Miglia, fu il protagonista di una stagione eroica. E rifiutò la tessera del Fascio. Come ricostruisce una biografia appassionante.


A tutta prima, nessuno gli avrebbe riconosciuto il timbro dell'atleta. Piccolino, pelle e ossa, senza un grammo di grasso ma anche senza un grammo di muscolatura. E poi con quel nome - Tazio - che sembrava uscito dai manuali di letteratura latina per chi aspirava alla direzione della Biblioteca vaticana. Solo l'urlo con la gola piena che accompagnava le sue corse in automobile, quando affrontava il cuore delle curve a gomito - quello sì - rivelava la tempra del lottatore che, gli avversari, li voleva soltanto per sconfiggerli. Nuvolari - Tazio Nuvolari - mantovano di Castel d'Ario, prima di diventare una leggenda dei circuiti automobilistici fu il profeta di un tempo nuovo.

Era nato alla fine dell'Ottocento, quando lo spazio e la vita si misuravano a passi. I cavalli erano quelli che trainavano i carri e il raggio d'azione era fisicamente ridotto a pochi chilometri. I cavalli a motore arrivano con il Novecento e, almeno all'inizio, apparvero una stravaganza per ricchi annoiati. Eppure marcarono il passaggio fra la civiltà contadina e quella industriale. Lasciare la vecchia strada per la nuova sembrava un azzardo e le novità tecnologiche, altro che incuriosire, apparivano pericolose contaminazioni.

In 300 pagine dedicate a Tazio Nuvolari: le vittorie, il coraggio, il dolore (Baldini+Castoldi) Pino Casamassima, giornalista e autore teatrale, racconta tutto questo: il campione, capace di trionfare sui circuiti di mezzo mondo, ma anche quell'epoca di mezzo con i contadini che alzavano la schiena dai solchi da seminare per entrare nelle fabbriche che cominciavano a punteggiare la campagna altrimenti omogenea. L'elettricità che sostituiva le candele. L'acqua che poteva arrivare direttamente in casa, evitando di tirarla dal pozzo. E la radio che violava i confini importando voci - persino - dalle Americhe.

Insomma, la biografia di un personaggio capace di attraversare un mondo in evoluzione affannosa. Il progresso non si porta sempre dietro aspetti positivi anche se i risultati in negativo non dipendono dall'itinerario bensì da chi lo percorre.
Tazio Nuvolari - «mantovano volante» o il «Nivola» - non ebbe la percezione di rappresentare il nuovo in arrivo ma - pur inconsapevolmente - recitò il ruolo di chi ne capeggia l'avanguardia.

Di automobili, a quel tempo, ne esistevano poche migliaia in Europa e poche centinaia in Italia. Alcuni di quei trabiccoli tremolanti si sfidarono sulla strada sterrata che da Parigi portava a Rouen. Il più veloce, a percorrere quei 126 chilometri, impiegò 6 ore e 48 minuti, correndo (si fa per dire) alla media di 18 chilometri l'ora.

Le automobili, più che mezzi di trasporto da utilizzare per il lavoro, sembrarono aggeggi per il divertimento. Sonia Delaunay, artista ucraina trapiantata a Parigi, si vestiva in modo che il colore dei suoi abiti fosse intonato alla tappezzeria della Torpedo sulla quale doveva viaggiare. E Isadora Duncan, la libellula scalza del palcoscenico, rimase uccisa - si direbbe per snobismo - su un'auto che percorreva la promenade di Nizza. Si era avvolta il collo con una sciarpa di cinque metri che pareva rincorrerla come la coda di una cometa. Il lembo della stoffa finì nei morsi delle ruote della sua macchina e la strangolò.

Un esemplare di quei primi tentativi di modernità l'aveva comprato Arturo, padre di Tazio, un agricoltore benestante con una quantità di mezzadri alle sue dipendenze e, dunque, con disponibilità economiche superiori alla media. Il «Nivola», a dimostrazione che i motori gli abitavano nel Dna, la «rubò», una notte, per verificare che cosa significasse guidare. Aveva 11 anni, e fu facile accorgersi che il suo lavoro sarebbe stato con un volante fra le mani.

All'inizio, per la verità, si dedicò alle motociclette e sulle piste «locali» si diffuse un mito destinato a ingigantirsi. Correva con, a tracolla, una catena di riserva. A quei tempi, per strade ancora sterrate, più buchi che rettilinei e con motori che erano dei prototipi, non era difficile spaccare gli ingranaggi. E lui, per essere certo di arrivare primo, si metteva nelle condizioni di riparare le rotture, rimettersi in sella e riprendere la corsa.

Ogni circuito aveva il profumo dell'avventura. Occorrevano degli occhialoni per proteggere gli occhi dalla polvere. Tazio Nuvolari ne portava un altro paio, girato al contrario, sulla nuca, per ripararsi dai sassi che potevano rimbalzargli sulla testa. Se pioveva, la strada s'impantanava. I corridori all'arrivo erano maschere di terra. Tutti uguali: abiti dello stesso colore della creta bagnata e facce marroni dalle quali, di umano, spuntavano soltanto gli occhi.

Le gare in auto arrivarono un po' dopo. La prima, il 20 marzo 1921. Si presentò al «via» della Coppa di Verona con la Ansaldo 4CS di famiglia. Non lo conoscevano e, alla partenza, nessuno dei veterani lo degnò di uno sguardo. Per questo la sua vittoria suscitò maggiore sorpresa. Al Circuito del Tigullio uscì tre volte di strada. Ogni volta, a forza di nervi, rimise l'auto in carreggiata. L'ultimo incidente fu il più rischioso: si ritrovò sullo strapiombo della costiera ligure, l'avantreno anteriore oltre l'orlo del burrone.

«Ma se ti dicono che sono morto» rassicurava la moglie Carolina «non ci credere perché non è vero». Glielo diceva in dialetto: «Te credet mia…!». Come quella volta, a Stoccarda, sul Circuito Solitude (12 settembre 1926) quando volò fuori di strada, schiantandosi contro i parapetti. Lo raccolsero che sembrava in fin di vita, le prime notizie d'agenzia - esagerando - comunicarono che il grande campione era morto.

Alla sua casa di Castel d'Ario si presentarono in parecchi con la faccia di circostanza. «Si faccia forza signora» insinuavano con fastidiosa supponenza. Ma lei - Carolina - obbedì a Tazio che le aveva imposto di non credere. «Morto?» fu il suo commento. «Vedremo… Lo ha detto la radio? Vedremo…! Intanto voi desiderate qualcosa? Un cordial…?».

I giornalisti che vennero inviati in Germania non lo trovarono nella camera mortuaria e, per la verità, nemmeno all'ospedale. Dopo un paio d'ore d'intontimento Nuvolari si alzò dal letto e pretese di andarsene. Arrivò alla stazione a piedi e, in treno, tornò a casa.
Vinse la Mille Miglia, il Gran Premio di Francia, quello di Monza e di Montecarlo, la prestigiosa Coppa Vanderbilt, il Gran Premio di Roma. Era un duro e non poteva che stringere amicizia con il «drago» Enzo Ferrari per il quale le auto erano un affare e, contemporaneamente, oggetti d'amore.

Nuvolari conquistò il titolo di «campione italiano assoluto» e poi «campione del mondo». Imbattuto perché sembrava imbattibile. Anche quando nessuno gli attribuiva una chance di vittoria, lui riuscì a mettere le sue ruote davanti agli altri. Come il 28 luglio 1935 a Nürburgring, al Gran Premio di Germania. Doveva vedersela con le Mercedes e le Auto Union, costruite per glorificare il regime nazista e dimostrare la superiorità della razza teutonica.

La scuderia del «Nivola» disponeva di un bi-motore competitivo. L'aveva costruito la Ferrari per l'Alfa Romeo. Come potenza era in grado di contrastare i bolidi tedeschi, ma al prezzo di un'usura spaventosa delle gomme. Perciò, Nuvolari scelse di gareggiare con la «coccinella» dell'Alfa che, in mezzo alle lamiere luccicanti dei bolidi tedeschi, sembrava davvero Davide contro Golia.

Eppure, con 255 cavalli contro 500, al traguardo ci arrivò lui. Erano talmente convinti della vittoria da preparare una corona d'alloro sulla misura abbondante delle teste dei corridori tedeschi. A Tazio, quel trofeo, andava bene per le spalle. Fu una vittoria dell'Italia ma non dell'Italia fascista. A differenza di Primo Carnera, campione di boxe arruolato fra le camicie nere, Nuvolari restò «indipendente». Al federale Antonio Aghemo che voleva offrirgli la tessera del Partito, rispose che la politica non gli interessava.
Accettò, invece, l'invito di Gabriele D'Annunzio cui non mancava il senso dell'ironia. A Tazio - «mantovano volante» - regalò una tartaruga.

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