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Red Clay, l’incubo americano: nessun trionfo di prestigio dai tempi di Agassi 

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(a cura di Jenny Rosmini)

Andre Agassi è stato l’ultimo tennista statunitense a conquistare un titolo su terra battuta di categoria superiore a un ATP 250, trionfando al torneo di Roma nel 2002. Inoltre, è stato anche l’ultimo a vincere il Roland Garros, nel 1999. Per decenni, il tennis americano è stato sinonimo di campi in cemento e in erba, ma quando si tratta della terra rossa—la superficie più lenta e fisicamente impegnativa—i successi si sono fatti molto più rari. 

Prima del trionfo di Agassi, Jim Courier si era aggiudicato per due anni consecutivi il torneo parigino, nel 1991 e 1992, mentre Michael Chang aveva conquistato il titolo nel 1989, poco dopo aver compiuto diciassette anni – un successo che sarebbe rimasto tra l’altro l’unico della sua carriera in un torneo del Grande Slam.  

La primavera è da sempre il momento dell’anno più complicato per i tennisti americani che da aprile fino alla fine di Wimbledon si trovano a passare da un torneo all’altro con la valigia in mano, senza possibilità di fare rientro a casa. Questo è il periodo in cui si svolgono quattro dei tornei più importanti, risulta quindi un passaggio obbligato. Il primo grande appuntamento, che sancisce l’inizio della stagione su terra europea, è l’ATP Master 1000 di Montecarlo e anche qui le vittorie non hanno sorriso spesso ai tennisti d’oltre oceano. Con l’ultima vittoria di Carlos Alcaraz, il prestigioso trofeo monegasco è finito per il ventesimo anno consecutivo nelle mani di un tennista europeo. Tra questi successi spiccano le 11 vittorie del Re della terra rossa, Rafael Nadal, che dal 2005 al 2012 ha firmato un’impressionante serie di otto titoli consecutivi — un record destinato a restare probabilmente ineguagliato. Per ritrovare l’ultimo vincitore americano di questo importante torneo di preparazione al Roland Garros occorre risalire fino al 1956, quando Hugh Stewart ebbe la meglio sul connazionale, Tony Vincent. Davvero un’eternità se pensiamo che l’Era Open è iniziata nel 1968 e l’ATP è stata fondata nel 1972. Per trovare invece l’ultima volta in cui un americano ha raggiunto la finale, bisogna tornare indietro fino al 1992, quando Aaron Krickstein si arrese all’austriaco Thomas Muster. 

Il lungo digiuno degli americani a Monte Carlo è legato, almeno in parte, alla natura non obbligatoria del torneo e alla concomitanza in calendario con l’U.S. Men’s Clay Court Championship di Houston, attivo in Texas dal 2001 come torneo di categoria 250 e unico evento del circuito ATP Tour ancora disputato su terra battuta negli Stati Uniti! Non è un caso che l’albo d’oro del torneo metta in evidenza la presenza americana tra i vincitori, anche più recenti: Reilly Opelka, Frances Tiafoe, Ben Shelton e Jenson Brooksby nell’ultima edizione.  

È comprensibile che molti giocatori scelgano di evitare la lunga trasferta europea, preferendo restare negli Stati Uniti per prepararsi al secondo Slam stagionale. Tuttavia, questa scelta strategica presenta un limite evidente: la superficie su cui si gioca a Houston, l’Har-Tru, condivide ben poco con la tradizionale terra rossa. Le differenze non sono solo cromatiche, ma strutturali e tecniche, tanto da rendere l’adattamento quasi inutile in vista delle sfide parigine. Si tratta di una terra verde che si comporta più come un cemento leggermente addolcito – con rimbalzi decisamente più regolari rispetto alla vera terra battuta europea, così ricca di variabili. Questo tipo di superfice è molto diffusa nei circoli americani, dando l’illusione che il tennis su terra sia familiare anche negli USA. 

Un rapporto ‘duro’ con la terra 

La relazione tormentata degli americani con la terra nel tennis nasce a metà del Novecento. Nel secondo dopoguerra, la suburbanizzazione trasformò il panorama sociale e, con essa, il tennis smise di essere un passatempo elitario per approdare nei parchi pubblici tra gli Anni ’60 e ’70. Da rituale esclusivo dei country club a passatempo preferito di una classe media in crescita. Secondo un articolo del New Yorker, il numero di giocatori passò da 5,5 milioni nel 1960 a 19 milioni nel 1976. Questo boom fu alimentato dall’apertura dei tornei ai professionisti nel 1968, dall’aumento delle trasmissioni televisive e dalla costruzione di campi pubblici nei parchi cittadini. Nonostante la diffusione del tennis, gli americani svilupparono una preferenza per le superfici dure rispetto alla terra battuta. Le superfici dure richiedevano meno manutenzione e si adattavano meglio alle condizioni climatiche di molte regioni degli Stati Uniti. Questo influenzò anche la formazione dei giocatori, che spesso trovavano più difficile adattarsi ai campi in terra battuta europei. 

Speranze americane sulla terra battuta: un futuro promettente? 

Nonostante il passato recente poco brillante, la nuova generazione di tennisti americani mostra segnali incoraggianti sulla terra battuta. Ben Shelton, ad esempio, ha firmato una corsa sorprendente fino alla finale dell’ATP 500 di Monaco di Baviera, arrendendosi solo ad Alexander Zverev. L’americano ha impressionato lungo il cammino, eliminando uno tra i giocatori più in forma del momento e formidabile terraiolo come l’argentino Francisco Cerúndolo. 

Taylor Fritz ha raggiunto risultati significativi nel 2024, tra cui le semifinali al Madrid Open e i quarti di finale agli Internazionali d’Italia, diventando il primo americano a raggiungere i quarti di finale in tutti e tre i tornei Masters 1000 su terra battuta — Monte Carlo, Madrid e Roma—da quando la serie è stata istituita nel 1990. 

Anche Tommy Paul ha evidenziato notevoli progressi nel 2024, spingendosi fino alle semifinali degli Internazionali d’Italia dopo aver eliminato avversari di spessore come Daniil Medvedev e Hubert Hurkacz. A conferma della sua crescita sulla terra battuta, è attualmente l’unico statunitense ancora in corsa per il titolo a Roma. 

Questi risultati indicano un cambiamento positivo nella preparazione e nell’adattamento dei tennisti americani alla terra battuta, suggerendo che il futuro potrebbe finalmente riservare maggiori soddisfazioni su una superficie storicamente ostica per gli Stati Uniti. Sta forse nascendo una nuova generazione capace di rompere il tabù? In realtà, il nodo da sciogliere potrebbe essere più profondo e andare oltre la superficie di gioco. Da anni ormai il tennis americano fatica a esprimere un vero fuoriclasse, un campione in grado di competere stabilmente per i titoli del Grande Slam e imporsi con continuità nei grandi eventi del circuito. Non si tratta solo di una questione tecnica, ma anche di contesto: il dominio ultradecennale dei Big Four – Federer, Nadal, Djokovic e Murray – ha lasciato poco spazio agli outsider, e oggi la nuova era è già presidiata da fenomeni completi come Carlos Alcaraz e Jannik Sinner, capaci di vincere su ogni superficie. Insomma, più che la terra battuta in sé, a mancare sembra essere una vera punta di diamante. I vari Fritz, Paul, Tiafoe e Shelton hanno mostrato progressi importanti e occupano i vertici della classifica mondiale, ma nessuno di loro, al momento, sembra avere quel quid in più per guidare una nuova era vincente. 

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