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Il Black History Month, perché quest’anno è più importante che mai

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In molti Paesi, il Black History Month è celebrato a febbraio. Negli USA, nello stesso mese, si celebra anche il “Mese del Cuore”, e non bisogna tralasciare il fatto che, verso la fine del V secolo, Papa Gelasio I stabilì la festività di San Valentino proprio il 14 di febbraio. Anche in Canada il Black History Month viene celebrato nel secondo mese dell’anno, mentre lo stesso non si può dire di Olanda, Irlanda e Gran Bretagna, dove viene invece celebrato ad ottobre. San Valentino, invece, è universalmente festeggiato il 14 febbraio.

Le attenzioni per il nostro organo più importante sono in crescita negli ultimi anni, visti i ritmi sempre più frenetici della vita moderna, e la conseguente preoccupazione per la salute; la stessa festività di San Valentino è un’occasione in cui le persone ricordano ai propri cari quanto essi siano importanti, con regali come rose o cioccolato. Il febbraio di quest’anno, tuttavia, dovrebbe essere più incentrato sul Black History Month in virtù degli eventi occorsi nel 2020, che hanno risvegliato la necessità di riconoscere che negli Stati Uniti, e più in generale in tutto il mondo, tutte le persone sono state create allo stesso modo, e per questo motivo hanno pari diritti.

Nel 1926, lo storico Carter Woodson (insieme all’Association for the Study of Negro Life and History) sviluppò l’idea di rendere la seconda settimana di febbraio (settimana nella quale erano nati due personaggi del calibro di Abraham Lincoln e Frederick Douglass) la “Negro History Week”. La speranza era di portare all’attenzione generale che esistesse un gruppo di cittadini americani dimenticato da tutti ma che aveva dato il loro contributo alla formazione del paese. L’obiettivo dichiarato era di restituire al Paese una visione culturale caduta nel dimenticatoio, che avrebbe ridato importanza alla popolazione di etnia afroamericana. All’epoca erano infatti passati più di cinquant’anni dalla fine della guerra, una guerra che nelle intenzioni del governo federale avrebbe dovuto finalmente sancire l’uguaglianza per tutti.

L’iniziativa della “Negro History Week”, con l’obiettivo di insegnare alle nuove generazioni la storia e la cultura “Black”, non fu ben accolta. Nonostante ciò, la seconda settimana di febbraio fu dedicata alla commemorazione della diaspora africana fino al 1969. Successivamente, il gruppo dei “Black United Students” della Kent State University propose di rendere l’intero mese di febbraio il “Black History Month”: fu così che un anno dopo se ne tenne la prima celebrazione ufficiale, proprio in quell’università. Nel 1976, anno della Celebrazione del Bicentenario degli Stati Uniti d’America, il “Black History Month” venne riconosciuto ufficialmente dal governo americano.

Il 2020 è stato un anno di devastazione. Il COVID-19 ha causato tantissime vittime e ha sconvolto l’economia del mondo intero; lo stress quotidiano è aumentato ed ha portato a manifestazioni di frustrazione e, in alcuni casi, rabbia. Episodi di violenza per le strade sono esplose a livello internazionale. Il 25 maggio 2020 è stato un punto di svolta personale per noi due. La morte di George Floyd ci ha aperto gli occhi su dove fossero il mondo e il tennis rispetto a tanti temi; abbiamo potuto constatare da vicino, in quanto giornalisti di lunga data, le difficoltà nell’appartenere alla comunità afroamericana. Sappiamo che è necessario fare molto di più per liberare il mondo dai pregiudizi razziali: “Black Lives Matter”… ora più che mai. Beninteso, “All lives matter”, sempre, ma è innegabile che esistano delle disparità di trattamento nei confronti della comunità afroamericana, e che questi comportamenti passino spesso sottotraccia.

Allo scorso US Open, Naomi Osaka ha usato le sue mascherine per richiamare l’attenzione sulle vittime più recenti del razzismo: Ahmaud Arbery, Philando Castile, George Floyd, Trayvon Martin, Elijah McClain, Tamir Rice, Breonna Taylor e molti altri; con questo gesto, la speranza era di rendere consapevoli sempre più persone che esistevano molti più casi di vittime di colore della violenza perpetrata dalla polizia negli USA di quanti ne vengano trattati dai media.

Naomi Osaka – US Open 2020 (via Twitter, @naomiosaka)

Prima di partire per New York e disputare il torneo, Osaka si era recata a Minneapolis, dove George Floyd era stato ucciso, ed aveva preso parte alla protesta pacifica che si stava tenendo contro la police brutality. Nel mese di luglio, aveva poi scritto un articolo apparso su Esquire Magazine sul tema del razzismo, mentre dopo l’episodio dell’uccisione di Jacob Blake, colpito alle spalle più volte da un poliziotto a Kenosha, nel Wisconsin, aveva deciso di ritirarsi dal torneo Western & Southern Open, dove aveva raggiunto la semifinale, in segno di protesta. Comprendendo l’importanza della decisione, il direttore del torneo decise di sospendere la competizione per l’intera giornata, in sostegno alla giustizia sociale.

Alcuni colleghi di Osaka hanno seguito il suo esempio, supportando pubblicamente le proteste del movimento Black Lives Matter: in primis la giovanissima Coco Gauff, e poi Frances Tiafoe, Sloane Stephens, così come James Blake e le sorelle Williams, sono solo alcuni dei nomi coinvolti. Opportunamente, lo US Open, durante i suoi ultimi giorni, ha ospitato una mostra sull’Arthur Ashe, “Black Lives to the Front”, in cui sono state esposte le opere di diciotto artisti.

Con questo si vuole rimarcare che il mese di febbraio non è soltanto un’occasione per leggere un libro che esalta la vita e le opere di celebri persone di colore, ma deve piuttosto invitarci a riflettere sul fatto che la storia non è stata scritta esclusivamente dal mondo “bianco”; con la conoscenza e la comprensione di “tutto” ciò che la storia racconta, abbiamo gli strumenti che possono cambiare il futuro e lasciare il passato alle nostre spalle, che è il posto in cui dovrebbe restare.

Traduzione a cura di Antonio Flagiello

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