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L’alpinismo non è cosa da signori: parola di Zannini

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«Sono sempre andato in montagna da signore», dice di sè Julius Kugy, raccontando delle sue ascensioni in compagnia di guide locali. L’asserzione, in sé banale, tradisce il vizio prospettico che ha sempre contraddistinto la storia dell’alpinismo: un’attività nobile e gratuita, riservata alla borghesia cittadina, capace di capire il valore etico ed estetico dell’impresa. Ma anche fornita del tempo libero e delle risorse necessarie ad attuarla.

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Kugy non disconobbe mai il valore dei suoi accompagnatori, anche se, tra le righe, lasciò intendere che avrebbe potuto fare tutto da solo. «Ma non sarei stato dal profondo l’“esploratore” delle Alpi Giulie se non avessi legato a me anche i loro abitanti... Quante cose ho potuto apprendere dalle tradizioni dei cacciatori trentani, quanto ho imparato dai racconti del leggendario Osvaldo Pesamosca!», osserva.

Un fatto di conoscenza ambientale, che però lasciava intatta la verginità della cima e della sua ascensione. La via per salirla, la prima assoluta, è un’altra cosa, che impegna tecnica e spirito, e per quella ci vuole il “signore”.

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Quando herr doktor si cimenta con la montagna, l’epoca dei pionieri sta sfiorendo, e si è affermata la professionalità della guida. Ma l’alpinismo è nato prima, molto prima, non nella mitologia storica antica e recente, ma nella quotidianità dei montanari, che non ebbero voce, né riconoscimenti.

Andrea Zannini, nel suo “Controstoria dell’alpinismo”, da qualche giorno in libreria per i tipi di Laterza (verrà presentato in anteprima sabato, in piazza, a Forni di Sopra, alle 17), racconta di Arnold Abbühl, Joseph Bortis e Alois Volken, tre montanari che nell’estate del 1812 salgono l’inviolato Finsterhaarhorn per l’affilata e difficile cresta est.

Una “prima” senza motivazioni scientifiche, topografiche o militari, che però viene messa in dubbio (lo è ancora), perché “non si vuol credere che dei cercatori di cristalli e un inserviente dell’ospizio del Grimselpass avessero avuto ragione di una via che per decenni sarà considerata la più difficile delle Alpi”, scrive lo svizzero Daniel Anker.

La loro scalata, esposta, con neve, ghiaccio e passaggi di III grado, nell’aria rarefatta oltre i 4000 metri, cozzava infatti con la narrazione secondo cui la conquista delle cime poteva spettare solo ai borghesi cittadini, capaci di sensibilità estetica e cultura e perciò “inventori” dell’alpinismo.

L’aneddoto è uno dei tanti che costellano il libro, che, con il titolo denuncia l’intento revisionistico dell’autore, quello cioè di restituire ai valligiani il merito delle “vere” prime ascensioni. Zannini, ordinario di storia moderna all’Università di Udine, è un esperto della materia: già presidente della scuola d’Alpinismo “Capuis” di Mestre, poi della Commissione nazionale pubblicazioni del CAI, ha compilato, con lo scomparso Fabio Favaretto, il volume della collana Monti d’Italia dedicato al gruppo del Sella. Oltre a decine di pubblicazioni storico-alpinistico, ha scritto “Tonache e piccozze - il clero e la nascita dell’alpinismo” (Vivalda, 2004) vincitore del premio Leggimontagna di Tolmezzo.

La tesi di fondo è quasi elementare: la storia, come sempre, l’hanno scritta i vincitori, in questo caso poi erano i soli alfabetizzati. Ci sono però molte citazioni, tra le righe dei primi récit o in documenti d’epoca, che attestano la preesistente presenza di cacciatori e contrabbandieri, cristallier e marronier alle alte quote e probabilmente sulle cime.

Nel secolo dei lumi gli scienziati, con le loro ricerche, dimostrarono la praticabilità dei monti, dando un contributo decisivo allo sviluppo dell’alpinismo – chiarisce l’autore - ma non aggiunsero nulla a ciò che era antico patrimonio esperienziale dei montanari.

Zannini la prende alla lontana: da Filippo di Macedonia sul monte Emo, oggi Botev, e dall’imperatore Adriano sull’Etna (senza tener conto dei cacciatori-raccoglitori neandertalensi avvicinatisi alle Alpi trentamila anni fa, dei quali, in effetti, non si sa nulla). Poi, attraverso la salita di Petrarca al Ventoux, la dubbia scalata in artificiale del monte Aiguille, e i conquistadores di Cortés alle falde del Popocatepetl, arriva all’evento clou, che la vulgata corrente pone erroneamente quale prima pietra miliare nella storia dell’alpinismo: la salita del Bianco, l’8 agosto 1786.

Colpisce, nella meticolosa ricostruzione dell’avvenimento, la somiglianza con quanto sarebbe avvenuto quasi due secoli dopo con gli Ottomila, l’ossessione della corsa alla cima, l’impegno promozionale, lo spiegamento di forze, i campi intermedi. E i montanari, decisivi e trascurati, com’è poi stato per gli sherpa (fatta eccezione per Tenzing).

La visione dell’antistoria, o meglio della “storia post coloniale dell’alpinismo”, non può non includere anche gli inevitabili risvolti e intrecci che lo legano al turismo e allo sport, piaccia o non piaccia - dice Zannini – a chi vorrebbe farne una turris eburnea abitata esclusivamente dall’estetismo, o, al massimo, dall’orgoglio nazionale.

Terra incognita per gli inglesi e i tedeschi che vi si avventurarono da pianure lontane, le Alpi. Non certo per i montanari, che, pur destinati a diventare “professionisti”, nutrirono pure loro il gusto del playing, radice prima del salire le cime (viene citato Stephen, nel libro, ma ci sono anche Huizinga e Caillois).

E che, attraverso la gratuità del gesto, testimoniarono il loro essere partecipi dell’“estetica del sublime” (basti pensare a Luc Meynet, il “gobbo del Breuil”, che in vetta al Cervino pianse di gioia perché “si sentivano ridere gli angeli”).

Il finale di questa controstoria dell’alpinismo è una accurata demolizione di un mito: l’ascensione compiuta da Francesco Petrarca al Mont Ventoux nel 1335. Zannini riporta, e analizza, per farlo, anche il discorso tenuto a Venezia dal primo presidente del Cai Paolo Lioy, svelandone il senso eminentemente politico. Nonché la volontà di porre il sigillo della primazia cittadina e borghese sulla nascita e sulle imprese dell’alpinismo.

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