Carlo Alberto Cimenti era Cala per gli amici. Aveva sfidato gli 8mila metri del Nanga Parbat, la nona vetta più alta del mondo, combattuto e dimostrato il valore e la tenuta mentale di un campione dell’alpinismo e dello sci quale era. Ieri la notizia che ci ha piegati: Cala Cimenti è scomparso, travolto da una valanga mentre faceva sci alpinismo con l’amico e compagno di escursione Patrick Negro, scomparso con lui, tra le vette che più amava, dove la sua passione aveva preso forma e sostanza, in Alta Valle di Susa, dove lavorava come guida alpina. Cala avrebbe compiuto 46 anni il giorno di San Valentino.

Noi di GQ lo avevamo intervistato nel 2019, a seguito della scalata del Nanga prima e i 6955 metri dell'inviolato Gasherbrum VII, in Pakistan, compiendo una serie di imprese dalla modalità unica: su fino in cima in stile alpino e discesa con gli sci ai piedi. Ed è proprio sul Gasherbrum che Cala aveva salvato la vita a Franco Cassardo, suo compagno di scalata gravemente ferito, vegliandolo e organizzando i soccorsi. L'anno scorso aveva pubblicato il libro autobiografico Sdraiato in cima al mondo, dove raccontava l'esperienza che gli aveva cambiato la vita. 


Cala è stato l’unico italiano a vincere lo ‘Snow Leopard’, il riconoscimento dato a chi raggiunge le cinque vette di settemila metri che si trovano nell’ex Unione Sovietica. In Nepal, mentre si trovava a cinquemila metri, aveva chiesto a sua moglie Erika di sposarlo, sportiva e come lui innamorata delle vette. Si era uniti lì, ad alta quota, dove erano di casa. E dove Cala è stato sopraffatto dall’imprevedibilità della natura. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo lo ricorderà per la sua risata fragorosa e trascinante, la sua insostenibile gioia di vivere e quel non prendersi sul serio che erano i tratti distintivi che lo rendevano unico.

Per ricordare la sua impresa più grande vi proponiamo l'intervista uscita su GQ ICE nel novembre 2019. 

Quei 3 miracoli a 6955 metri

Come salire sul Gasherbrum VII, scendere con gli sci e salvare un amico: l'impresa di Carlo Alberto Cimenti

I miracoli esitono? Se lo chiedete a Carlo Alberto Cimenti, Cala per gli amici, vi risponderà di si. Quest'estate sotto i suoi occhi se ne sono materializzati tre durante la sua ultima spedizione sul Gasherbrum 7, quando ha salvato da morte certa il suo compagno Francesco Cassardo caduto tentando la discesa subito dopo di lui. Oltre ai miracoli, ci sono i fatti straordinari che si sono succeduti da quando Cimenti, da bambino, seguiva le orme del padre alpinista, arrivando a 43 anni e compiendo una serie di imprese dalla modalità unica: su fino in cima in stile alpino e discesa con gli sci ai piedi. Dopo la cima del Monte Bianco a 12 anni, non si è più fermato: dal Kilimanjaro al Nepal, dai 6000 agli 8000 in una progressione inarrestabile verso l'alto con il Manaslu e l'onorificenza Snowleopard - riservata a coloro che riescono a scalare tutte e cinque le cime sopra i 7.000 metri in Russia. Quest'anno l'alpinista piemontese ha sceso con gli sci gli 8126 mt del Nanga Parbat, la montagna «assassina» costata la vita a Filippo Nardi. Subito dopo ha scalato i 6955 metri inviolati del Gasherbrum VII, in Pakistan, scendendo con gli sci su tratti che sfioravano i 55° di pendenza, assistendo alla caduta del suo compagno. Scampata la tragedia, rimane il ricordo di un'impresa fuori dal comune.

Quando si è accorto della caduta di Francesco?

«Sono sceso prima di lui. Subito dopo aver concluso la discesa dall'estasi sono passato al terrrore: l'ho visto cadere per 450 metri rotolando testa piedi, su una parete super ripida. Ho pensato al peggio. Gli sono andato incontro e nel frattempo ho allertato i soccorsi. Mentre mi avvicinavo gli ho urlato e lui ha mosso un braccio per avvertirmi che c'era. Nonostante tutto era lì. Dopo 20 minuti sono arrivato da lui, suppur cosciente, aveva gli occhi gonfissimi, sanguinava dalla testa ed era nudo perchè la forza centrifuga gli aveva tolto tutto. Ma non aveva lesioni. E' stato il primo miracolo. 

Immagino lo spavento...

«Stavo vivendo la scena di un film. Mi diceva che non riusciva a vedere, che era cieco. Pensavo ad un'emorragia celebrale, ma a quel punto servivano i soccorsi al più presto. Ho posizionato il mio zaino sotto di lui, gli ho dato la mia giacca e mi sono sdraiavo sopra per scaldarlo. Con l'arrivo del buio ho capito che i soccorsi non sarebbero arrivati e sono sceso dalla tenda che avevamo montato prima della salita per recuperare fornelletto, sacchi a pelo e pala. Avevo il terrore di ritrovarlo morto al mio rientro e dentro la mia testa immaginavo gli scenari peggiori. Due ore dopo l'ho trovato cosciente. E' stato il secondo miracolo. Per la seconda volta mi ha stupito, dimostrando una grande forza. Dopo aver scavato una piazzola l'ho accudito e vegliato tutta la notte e il giorno che è seguito, dato che i soccorsi non sono arrivati».

Quando hai tirato il fatidico sospiro di sollievo?

«L'epilogo è arrivato verso le 6:00 di sera quando sono in soccorso sono arrivati quattro alpinisti, Denis Urubko, Don Bowie e i due polacchi Jaroslaw Zdanowich e Janusz Adamski, e con una barella improvvisata abbiamo portato Francesco da 6300 metri  al campo 1 a 5900 metri. E' stato il terzo miracolo. Un attimo prima ero in preda a pensieri davvero brutti, tanto più che Francesco stava perdendo i sensi. Da solo non potevo trascinare quasi 100 chili e una notte in più senza ossigeno sarebbe stata fatale. Quando li ho visti arrivare è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Un gesto eroico, tanto più che uno di loro, Don Bowie, aveva in programma di andare in cima al G2, ma ha dovuto rinunciare alla scalata, perchè dopo un salvataggio come quello consumi troppa energia e non puoi pensare di salire ancora per una vetta. Un gesto di solidarietà che non dimenticheremo mai. Io e Francesco abbiamo incontrato 4 angeli a cui dobbiamo la vita».