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Tomas Franchini: «La montagna è mia amica»

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Tomas Franchini: «La montagna è mia amica»
Tomas Franchini: «La montagna è mia amica»
Tomas Franchini: «La montagna è mia amica»

Non dategli un 8 mila, di quelli già percorsi e con le vie affollate. Trovategli piuttosto una parete vergine, mai affrontata prima da nessun uomo, e lo farete felice. Tomas Franchini è così, trova rifugio e soddisfazione nella montagna, lungo il cammino più che sulla vetta, quando sente di poter scoprire qualcosa più che quando misura in altezza la propria resistenza e la propria abilità di alpinista. Faceva lo sciatore ed era pure bravo, poi ha deciso di invertire il percorso: dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso. Gli sci li mette ancora, ma trova più piacere nell’infilarsi gli scarponi, ai bastoncini, ora, preferisce la piccozza. E sale. Sale come ha fatto a giugno, sul Lamo She, montagna di 6.070 metri in Cina, una delle vette meno note e più periferiche dell’Himalaya. Da solo, senza corda, in cinque ore di sole in mezzo a giorni e giorni di pioggia. Rubando il tempo al tempo.

Sciava, ora scala. Quali sono le similitudini e quali le differenze tra le due discipline?
«Non hanno niente a che vedere una con l’altra. Lo sci alpino è una bellissima disciplina ma non è la montagna vera. Quella la conosci facendo alpinismo, andando a scalare. L’alpinismo non è nemmeno uno sport, per me, è uno stile di vita.

Che poi, prima scendeva e ora sale…
«Beh, scendo pure ora, eh (ride, ndr). Però è vero, sono più attratto dalla salita che dalla discesa. Mi piace tantissimo anche sciare, lavoro come guida alpina, faccio freeride, ma le linee di scalata mi piacciono più di quelle di discesa».

Come è nata la sua nuova vita da alpinista?
«Abitando a Campiglio ho sempre frequentato le montagne coi miei genitori. Andavamo a fare le nostre gite in montagna la domenica ma senza arrampicare. Quello ho iniziato a farlo con mio fratello, che ha quasi la mia stessa età. Siamo partiti dalle pareti di roccia vicino a casa per poi spostarci sulle Dolomiti di Brenta. Da bambino ero sempre sugli alberi, facevo a gara con gli amici a chi saliva più in alto, facevamo i fortini giocavamo con gli slittini. Diciamo che scalare una montagna per me è abbastanza naturale».

Che rapporto ha con la montagna?
«Per me è tutto, è il mio campo lavorativo ma anche la mia vita, il mio parco giochi, dove vivo, dove sto bene. Quando mi trovo in mezzo alle montagne è come se fossi un animale nel suo habitat naturale, in grande equilibrio con la natura. In paese non mi sento così».

Le capita mai di temerla?
«No, temerla no. Non mi piace usare questo termine. Quando fai una salita difficile ti può mettere in soggezione per quanto è ripida o isolata, ma non la temo mai. La vedo anzi come una mia amica, una compagna».

Quest’anno ha scalato in solitaria la parete Est del monte Lamo She in Cina. Com’è andata?
«Per la verità non era nata come una scalata solitaria. Mi chiedono sempre quanti 8 mila ho fatto, ma a me non interessa fare gli 8 mila. Lì il campo base è sempre pieno di gente, come essere in piazza a Ferragosto. A me piace andare in montagne inesplorate, pareti vergini, mai scalate. Ho trovato questa valle in Cina all’estremità est dell’Himalaya, mai frequentata dagli alpinisti, e questa parete mai tentata prima. Sono partito col mio amico valdostano Pietro e quando siamo arrivati là c’era il monsone. Il tempo era pessimo e il mio amico era triste, così ha deciso di tornare a casa. Io invece avevo voglia di rimanere ancora un po’ a esplorare la zona, ho beccato una finestra di bel tempo di quattro-cinque ore e alla fine ho deciso di scalarla. Da solo e senza corda».

Quali sono le montagne che le ha dato più soddisfazione scalare?
«Sicuramente il Lamo She è una di queste. In un posto stra isolato, a due-tre giorni di cammino dall’ultimo villaggio con 15 abitanti, che a sua volta distava due giornate di macchina dalla più grande città vicina. Nessuno sapeva che ero lì e sono riuscito a scalare la parete nello stile che per me è quello più puro. Poi ce ne sono tante altre, il Cerro Torre in Patagonia, il Croston di Brenta, vicino a casa. Per me conta l’esperienza, non tanto arrivare sulla cima a tutti i costi. Ed è quello che cerco di trasmettere agli altri nella vita».

Come mai ha scelto la scalata in solitaria?
«Perché quando siamo soli io e la montagna mi sento come dentro una sorta di meditazione. In uno stato di equilibrio mentale e fisico incredibile. Devo cavarmela solo coi miei mezzi, senza l’aiuto di un compagno, e questo mi fa stare bene. Quando lo faccio voglio avere tantissimo margine, non scalo al mio limite ma sempre a un livello inferiore. Il bello dell’avere un compagno è proprio che puoi spingerti fino al tuo limite».

Da solo, in mezzo alla natura più incontaminata e impervia. È una sfida?
«Non la vedo come una sfida con la montagna, non è mia nemica perché devo sfidarla? Piuttosto ci facciamo compagnia».

Che consigli darebbe a un giovane che vuole fare l’alpinista?
«Di approcciare la montagna gradualmente, piano piano, step by step. E di farlo per passione. Tanti oggi iniziano ad andare in montagna per diventare guida alpina, invece devono sentire questo desiderio dentro di loro. La montagna è una cosa seria, non è un gioco, se si sbaglia qualcosa si rischia la pelle. Bisogna cominciare dalle via facili e quando si comincia a conoscere il proprio corpo in quel contesto si può passare alle cose un po’ più difficili. Poi la montagna ti dà tanto se riesci a viverla come esperienza, se ti godi il viaggio. Se arrivi in cima è solo la ciliegina sulla torta».

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