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Cambiamenti climatici, alcuni alpinisti sono amanti della natura ma non della sostenibilità

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Cambiamenti climatici, alcuni alpinisti sono amanti della natura ma non della sostenibilità

Gli appassionati di montagna e di alpinismo, che dovrebbero essere veri amanti della natura, sembrano vittime di una distorsione percettiva del climate change e del movimento internazionale ecologista. Nei giorni in cui le nuove generazioni mostrano una capacità di mobilitazione come non si vedeva da decenni, basta alzare lo sguardo verso l’Ottomila forse più facile, il Manaslu, per trovare un affollamento senza precedenti al campo base: ben 530 tra scalatori e portatori hanno piantato le tende gialle e arancioni intorno a 4.500 metri, con le ricadute inquinanti del caso, dall’approvvigionamento garantito con gli elicotteri alla quantità di rifiuti e feci che spargeranno in giro.

Tra il mezzo migliaio di aspiranti alla vetta del Manaslu c’è anche “l’italiano 69enne Enrico De Luca” (che sarebbe poi lo scrittore polemista “lottacontinuista” Erri De Luca) segnalato così, per via dell’età record, dal funzionario del Turismo nepalese che fornisce i dati alla stampa. In cento hanno già raggiunto la vetta nei primi giorni, dopo che gli sherpa hanno attrezzato la via con le corde fisse.

Spostando lo sguardo ancor più in alto, dalle parti dell’Everest (dove un enorme seracco incombe e consiglia già i primi dietrofront), troviamo un altro nutrito gruppo di alpinisti, alcuni fortissimi, come Kilian Jornet i Burgada, in caccia magari di record che, durante la stagione normale di salita alle vette himalayane, sono ormai impossibili a causa delle code che si formano nei giorni di bel tempo per il numero eccessivo di scalatori delle spedizioni organizzate. Ma le grandi agenzie di trekking alpinistico stanno cominciando a vendere pure le ascensioni invernali, e sarà sempre peggio.

Non sfugge all’assalto fuori stagione, ovviamente, la cima più difficile, il K2, ancora inviolata nei mesi impossibili delle nevicate, e comunque sempre più inavvicinabile anche d’estate, proprio per via dell’instabilità legata al riscaldamento globale. Ora, se già il livello d’inquinamento nelle alte quote è insopportabile durante le stagioni sulla carta più favorevoli, figurarsi che disastro porterà questa spinta alla de-stagionalizzazione delle scalate. Già si parla di una nuova strada asfaltata da tracciare verso Lukla, porta d’ingresso all’area del campo base, perché non sempre il meteo consente di fare in elicottero il salto da Katmandu.

Al di là del distrut-turismo e delle decine di migliaia di dollari delle agenzie specializzate, più quelle quattro misere rupie che restano nelle tasche dei locali, a spingere ancora sugli Ottomila e sulle avventure alpinistiche tra i monti più selvaggi è l’enorme giro d’affari delle aziende dell’abbigliamento e delle attrezzature sportive. Never stop exploring, recita lo slogan di un marchio tra i primi.

Molti colossi del settore oggi si fingono votati alla sostenibilità, ma ancora nel 2015 accusavano gli ambientalisti di sporcare il mondo per raccogliere prove contro di loro, come quando Greenpeace ha lanciato la campagna “Detox Outdoor” contro l’uso del Pfc (perfluorocarburi), dimostrando che giacche e corde finiscono per lasciare resti tossici nei luoghi incontaminati.

Si muovevano fior di sponsor, per esempio, anche dietro al fenomeno Reinhold Messner, il primo uomo ad aver salito in stile alpino pulito, ovvero senza ossigeno né mezzi artificiali né comunicazioni, tutte le cime più alte. Eppure, al culmine del successo, l’altissimo e purissimo altoatesino s’impegnò con gli attivisti di Mountain Wilderness, arrivando persino ad appendersi per protesta ai cavi dell’orripilante collegamento funiviario che attraversa il Monte Bianco. Per non dire poi dell’elezione tra i Verdi nel Parlamento europeo e della nuova vita di fondatore di splendidi musei della montagna (a proposito, 75 di questi anni ancora, Reinhold!).

Non è proprio un bello spettacolo vedere invece le nuove generazioni di campioni della montagna girarsi così dall’altra parte rispetto ai ragazzi dei Fridays for future. Certo, magari, qualcuno un venerdì appenderà la bandierina del Global Climate Strike sotto il colle sud tra il Lhotse e l’Everest.

Ma fa una certa impressione pensare che sia ancora lassù sul tetto del mondo, a rischiare la vita e a inquinare per fare un altro record di velocità, uno come Kilian Jornet i Burgada: al di là del mito sportivo, è un bravo ragazzo, esemplare nei comportamenti agonistici e nella vita fuori gara. E’ anche uno che ha una bella testa, e cerca di coltivarla: lo abbiamo visto di persona leggere Flaubert in francese sul kindle in un rifugio alto, dopo aver fatto i suoi 3-4mila metri di dislivello per allenarsi e dopo aver chiacchierato amabilmente a cena, senza nemmeno un cenno di vanteria, con alcuni “sfigatissimi” compagni occasionali di ricovero alpino.

E però, a ben vedere, Jornet i Burgada si era già fatto notare in controtendenza rispetto a se stesso, nelle polemiche che da due-tre anni impazzano sulla svolta restrittiva imposta dalle autorità francesi agli scalatori che nei giorni di bel tempo trasformano la salita al Bianco in un pericoloso formicaio.

A chi si presentava con pantaloncini e scarpette da sky-running, per fare avanti e indietro in giornata seguendo la nuova moda delle ascensioni in velocità, è stata opposta nel 2017 una regola che impone di avere vestiti e attrezzatura all’uopo. E Kilian, che è la star di queste corse leggere alla cima, s’è ribellato, a modo suo, postando le immagini in cui si mostrava quasi nudo in vetta. Ben sapendo, invece, che chi veramente può permettersi la salita mozzafiato riesce a farla agilmente anche lungo le vie meno battute.

L’indifferenza etico-ecologica degli alpinisti potrebbe avere comunque i giorni contati, man mano che s’affermerà il movimento verde dei giovani di tutto il mondo: gli stessi grandi interessi spingeranno in direzione opposta. Esattamente come molte grandi aziende, dopo la prima sfida contro Greenpeace, vantano ora di fare prodotti Pfc-free.

C’è un altro esempio che si può citare, per analogia: di recente negli Stati Uniti la moda del free-solo climbing, “l’arrampicata senza corda”, fu spinta dai soliti interessi pubblicitari (nel caso soprattutto di bevande e barrette energetiche) fino all’organizzazione di vere e proprie gare. Ma dopo alcuni incidenti mortali, il principale sponsor alimentare si è chiamato fuori. E di folli competizioni del genere non si è più sentito parlare.

C’è da scommettere, dunque, che saranno i grandi marchi dell’outdoor a rimettere a posto quel venerdì che manca agli scalatori di oggi, innestando la retromarcia per evitare di giocarsi la reputazione etica-ecologica.

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