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Ma Carducci giocava a Golf?

Sappiamo tutti quale sia il colore di un campo da golf. Verde, okay. Ma quale è il sound, il suono dominante, quella sorta di colonna sonora che accompagna le traiettorie della pallina?

Negli auspici di tutti i Carrellanti è il silenzio e quindi vedi Simon & Garfunkel (“The sound of silence”, storico brano inserito anche nel film “Il laureato”, trampolino di lancio di un giovane Dustin Hoffman) oppure, per rifarci a una tradizione più aulica e più nostra, vedi “…il divino del pian silenzio verde”, verso di chiusura del celebre “T’amo o pio bove” di Carducci, tanto calzante con le nostre storie da far sospettare che il grande poeta giocasse a golf.

Naturalmente il suono può variare a seconda della natura del sito. Nei campi ricchi di ostacoli d’acqua, il suono dominante può essere lo starnazzare delle varie specie di papere che, in genere, hanno la prerogativa di esibirsi proprio mentre stai per tirare un putt decisivo.

Nei campi di mare, ci sono il fragore delle onde, il fischio del vento, il verso dei gabbiani quando qualche buca si spinge fin quasi a riva. Nei campi di montagna c’è spesso il fischio acuto delle marmotte.

Nei campi di città ci può essere il sottofondo del traffico di tangenziali varie o ferrovie.

Nel bellissimo Golf Club Milano, inciso tra gli alberi del Parco di Monza, ci sono tre o quattro buche dove, per la contiguità con l’autodromo, si ha a che fare con stacchi e sgasate delle vetture (non di Formula 1, fortunatamente) impegnate sul circuito: e in quei casi vien da sorridere ripensando alle molte volte in cui per qualche incauto sussurro sfuggito mentre un compagno sta per tirare, si viene folgorati dal suo sguardo. Un sussurro può più di 300 cavalli improvvisamente scatenati pochi metri più in là? Meglio non chiederselo.

C’è dunque un’ampia “tavolozza” di suoni ma, silenzio a parte, non pare esserci una colonna sonora uguale per tutti. E invece no.

Dovunque si giochi c’è un’eco che rimbalza di fairway in fairway. Sgorga dalle bocche di maschi rudi e di signore per bene; di giocatori incalliti e di debuttanti allo sbaraglio. È il gemito esistenziale del golfista insoddisfatto che, a tutte le latitudini, una volta scagliato il colpo erompe in un: “Ma dove c… tiri?”.

Fateci caso: quell’esclamazione accomunerà tutte le vostre uscite in campo, dovunque vi troviate. La sentirete rimbalzare da ogni dove: dai par 3 corti che richiederebbero solo un po’ di precisione e dai par 4 dog-leg dove sarebbe fondamentale piazzare il tee shot; nei chip a correre dove il 90% è determinato dalla mira corretta (oltre che dalla forza, of course) o nei par 5 dove c’è solo, magari, da evitare un lago fiancheggiatore che, invece, esercita sulla pallina un fascino magnetico.

“Ma dove c…tiri?” è il suono dei nostri giorni verdi (sono ancora sotto l’effetto di un’overdose carducciana) che denuncia tutta la distanza fra intenzione e azione; fra velleità e capacità; tra teoria e pratica.

Se sapessimo tirare non dico sempre ma almeno spesso dove davvero ci eravamo riproposti di tirare, la colonna sonora cambierebbe.

E con essa cambierebbe il nostro rapporto di eterna insoddisfazione nei confronti del gioco se, un’ottantina di anni dopo, fossimo capaci di ottemperare al mussoliniano “Noi tireremo dritto”.

“Già – aggiunge sempre qualcuno a questo punto dell’argomentazione – però sai che noia se andasse sempre tutto per il verso giusto…” Sarà pur vero, ma lasciatemi morire di quella noia e sulla mia lapide fate che sia scritto: “Tirò dove volle, annoiandosi un po’. Ma godendo come un riccio”.

(Foto del titolo: autore Sandro Marini)

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