Dal Friuli a New York per dare lezioni di golf a manager e avvocati in un grattacielo
Trovare l’America in America è una rarità, tanto più se la specialità della casa è il golf. Tirare al green, negli States, è un’esigenza più che uno sfizio domenicale come in Europa.
Business is business. E lo swing, nella terra di Tiger Wood, lo è eccome.
Diciamo che Federico Frangiamore, un pro italiano nato e vissuto a Pordenone, come spesso accade nei film romantici di Rob Reiner si imbarcò dieci anni fa sul piroscafo per amore.
Tenacia, professionalità e idee gli diedero la propulsione necessaria per salire su un grattacielo della 39ª a insegnare il ritmo del golf ai manager newyorkesi decisi a sfruttare le poche ore libere davanti a un simulatore.
«Incontrai due soci convinti che alcune buone macchine e un bar fornito avrebbero persuaso i golfisti ad allenarsi in “quota”. Così avvenne ed entrai nel team».
Quello che non sapevamo, almeno fino a quando Federico non ce l’ha detto, è che certe aziende americane «impongono ai loro dipendenti di impugnare un ferro per usarlo al meglio durante i meeting di lavoro nelle verdi praterie.
Oltreoceano tutti giocano, soprattutto certi appetibili clienti che solamente nel loro habitat prediletto a volte cedono».
Non facile, comunque, impossessarsi del visto, se l’intenzione è quella d’imbastire una vita a New York…
«Per nulla. Mi presentai con buone credenziali, comunque: professionista della Pga italiana, nazionale dai 16 ai 18 anni, gare internazionali vinte, insomma qualcosa in valigia di buono c’era.
Nel 2013 iniziò ad affacciarsi l’opportunità del golf indoor, pratica utile a chi lo vive con passione, ma è strozzato dal tempo.
New York è una Milano alla decima, per capirci. Qualunque professionista respira col lavoro appiccicato addosso e solamente nel week-end si concede una giocata al club con gli amici o per affari».
Affrontiamo di petto questo strano aggeggio che, appunto, simula un campo ed è infarcito di tecnologia.
«Si tira da un tappetino in erba sintetica e la pallina scagliata dal giocatore sbatte su uno schermo e continua il suo volo virtuale all’interno di una situazione che sembra davvero reale, ovvero un vero e proprio diciotto buche».
Pratica che da noi ha avuto un timido boom all’inizio, poi è quasi sparita.
«Le dinamiche italiane sono imparagonabili con quelle statunitensi. In una metropoli da dodici milioni di anime in continuo spostamento ogni momento della giornata è sfruttato al meglio, la lancetta dell’orologio qui va più veloce. Swingare a pochi passi dall’ufficio è un’opportunità imperdibile».
Rischi e vantaggi di praticare in una stanza?
«Hai la palla sempre nella stessa posizione di partenza; in campo, no. Devi abituarti alle pendenze del terreno.
La ripetitività, però, aiuta a migliorare la tecnica e questo tipo di lezione è un toccasana per chi è discontinuo nella routine.
La grande conquista di un giocatore di golf è diventare una specie di robot che applica lo stesso identico movimento a ogni tiro. Un’utopia, certo, ma se pensi di non poterlo fare, mai lo farai».
Dove riceve i clienti, Federico?
«Al “Five Iron Golf” a Manhattan. Abbiamo tre sedi sparse per la città».
Costo di una lezione?
«175 dollari. Non si faccia ingannare dalla cifra. In Italia un’ora con un maestro costa decisamente meno.
Oddio, certi pro di grido si fanno pagare bene pure nel Bel Paese, ma qui i guru arrivano anche a cinquecento dollari l’ora e altri, al top dei top, a ben di più».
Credo di aver capito che loro la considerano una forma d’investimento.
«Esatto. Poter dire: “Continuiamo a discuterne su un campo da golf” è un vantaggio. Hai una possibilità in più di chiudere un contratto».
Mi faccia l’identikit dei suoi allievi tipo.
«Perlopiù avvocati, medici, broker di Wall Street. Si tengono caldi per la giocata della domenica.
Come ben sa la scommessa sta alla base di ogni gara in America, golf compreso. È stabilito un tot a buca, mentre in Italia l’ambizione è portarsi a casa il piattino d’argento. Filosofie opposte, stesso spirito competitivo».
Ormai, però, non è più uno sport elitario, vogliamo sfatare questa diceria?
«Infatti non lo è. In America si può giocare nei campi pubblici anche con venti dollari.
E in Italia molti club si sono convertiti a tariffe davvero convenienti. Se poi vuoi l’esclusività, be’ la paghi».
Lei è stato anche maestro al golf Lignano…
«Eccome no, fu una bella avventura. La foto che ho sul profilo WhatsApp da un’eternità è stata scattata al Pra delle Torri di Caorle quand’ero ragazzo».
Frangiamore, senta. L’Italia le manca? O meglio: ha intenzione di tornare?
«Non ci penso proprio. In fondo ho rappresentato e rappresento la Federazione italiana in America. Ecco, nessuno mi ha scritto mai uno straccio di grazie».