AZZURRI PER SEMPRE – “Palo ‘e fierro” Bruscolotti, il capitano che scolpì il mito
Ci sono figure che il calcio non racconta soltanto: le evoca. Appaiono come fantasmi benevoli ogni volta che si parla di valori antichi, quelli che non si logorano con il tempo.
Sul prato del vecchio San Paolo, negli anni in cui Napoli era un incendio di passione e contraddizioni, la sua sagoma sembrava quella di un guardiano mitologico. Passi pesanti, sguardo che non abbassava mai la cresta, torace in avanti: Giuseppe Bruscolotti, per tutti ‘Palo ‘e fierro‘, era il tipo d’uomo che si sarebbe potuto incontrare in un racconto di Verga o in una storia tramandata dai nonni.
Un difensore di ferro e di cuore, che non chiedeva permessi alla gloria: se la guadagnava a schiena dritta, entrando forte ma leale, protettore naturale di una città che l’aveva scelto come figlio adottivo.
Arrivò a Napoli nel 1972, quasi in punta di piedi, dopo il Sorrento: pochi pensavano che quel ragazzo robusto, all’apparenza semplice, sarebbe diventato un simbolo eterno. Ci mise poco però a spiegare il suo linguaggio: interventi duri, marcature che sembravano catene, una ferocia agonistica che non sfociava mai nella cattiveria. Pal e Fierro non intimidiva, educava. Faceva capire che da quelle parti, dall’area azzurra, non si passava.
Fu l’incubo di centravanti di mezza Italia. Bettega lo definiva “un muro con le gambe”, mentre Pulici raccontava che dopo 90 minuti contro di lui “ti servivano due giorni per respirare bene”.
Eppure Bruscolotti non era solo forza: era disciplina, testa, spirito di squadra. Uno che ascoltava l’allenatore, che non cercava la luce dei riflettori, che rendeva migliori i compagni.
Negli spogliatoi era un fratello maggiore.
Si narra che un giorno, prima di un Napoli-Juve infuocato, disse alla squadra: «Lasciate che mi occupo io delle prime botte, voi pensate a giocare». E Napoli quel giorno giocò. Perché sapeva che, con lui dietro, la paura non metteva piede.
Poi arrivò Diego.
Ed è lì che si misura la grandezza dell’uomo oltre il calciatore: Bruscolotti era il capitano da nove anni, un’istituzione. Ma quando Maradona toccò il suolo napoletano e il mondo cambiò colore, lui non esitò a consegnargli la fascia. Non per debolezza, ma per saggezza. Capì che per portare Napoli dove non era mai stata, serviva un re diverso. E lo riconobbe. Gesto semplice, gigantesco.
Giocò fino al 1988, sfiorando mille battaglie, vincendo una Coppa Italia, una Mitropa e vivendo lo Scudetto ’87 da collante, da voce profonda all’interno del gruppo. Quando salutò, aveva scritto la storia con la penna dei duri: 387 presenze, sempre con la stessa fame di all’inizio.
Oggi Bruscolotti è il ricordo che si sussurra con rispetto. È l’icona della Napoli popolare, quella che non si è mai vergognata di lottare. Uno che non ha avuto bisogno di frasi altisonanti o primedonne per essere amato: gli bastava la maglia.
E forse è proprio questa la sua eredità più profonda: ha trasformato un ruolo difensivo in un gesto d’amore, ha fatto della dedizione una forma di poesia ruvida, dura come il ferro del suo soprannome.
Quando lo nomini, ai napoletani brillano gli occhi. Perché Palo ‘e fierro non è solo un ex capitano: è un pezzo di anima azzurra che continua a vibrare, come un’antica promessa tra il popolo e la sua squadra.
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