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Andreazzoli: “Si puo fare è il nostro mantra, vorrei vincere la Coppa Disciplina”

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L’allenatore azzurro, Aurelio Andreazzoli, ha rilasciato un intervista al settimanale SportWeek.

Bennacer è venuta a salutarla con grande calore prima di Empoli-Milan giocata meno di un mese fa…

“Lui, Krunic…Negli spogliatoi ci siamo abbracciati e baciati. Ma succede lo stesso con tutti i miei ex giocatori. E anche con tanti che non ho mai allenato: salutano, si congratulano, danno la mano.”

E i suoi colleghi?

“Pure. Quasi tutti. Ma credo che il rapporto migliore io ce l’abbia con gli arbitri. Loro rappresentano la parte più screditata del mondo del calcio e noi che gli stiamo vicini in campo, allenatori e calciatori intendo, abbiamo l’obbligo di provare a farli lavorare in un clima più sereno. A Empoli insistiamo molto su questo: per due volte, quando la squadra è stata promossa in A, ai miei tempi e l’anno scorso con Dionisi, la società ha vinto la Coppa Disciplina. Voglio rivincerla quest’anno. Dopo la partita contro il Verona, in cui Di Francesco era stato ammonito per aver trattenuto un avversario per la maglia, sul referto, invece che per gioco scorretto, risultava che fosse stato sanzionato per comportamento irriguardoso nei confronti dell’arbitro. Ho chiesto al nostro segretario di chiamare in Lega perchè rettificassero. Potrà pure succedere, ma non credo che un giocatore del mio Empoli possa mai venire espulso per proteste.”

Ha riflettuto sulla possibilità che questo rispetto nei suoi confronti sia legato all’età?

“No, perchè conosco tanti rompicoglioni che sono vecchissimi. Credo invece che sia per come mi metto a disposizione. Se non lo fai in maniera sincera, la gente se ne accorge.”

E allenare una squadra di sbarbati aiuta a restare giovani nella testa?

“Aiuta anche quelli di 30 anni, anche se uno della mia età può permettersi di non fare caso alle cazzate che i giocatori dicono nello spogliatoio. Un ambiente come il nostro ti rinnova. Prima dell’allenamento la squadra ha un momento tutto suo, il torello. Io e i miei collaboratori ci mettiamo intorno a loro a sentire le battute che si scambiano e io ripeto sempre al mio staff: scrivete quello che si dicono, così li intendiamo! Come fai a non rimanere giovane con ragazzi così?

Fuori dal calcio, uno della sua età di cosa parla con dei ventenni?

“L’equilibrio è delicato e il confine con l’invadenza sottile, ma ho notato che, quando chiedi della famiglia, ti interessi dei figli, loro gradiscono. Io non lo faccio spessissimo, anche perchè dovrei moltiplicare per venticinque il tempo dedicato a uno e finirei per fare il prete e non l’allenatore, ma i ragazzi si aspettano che tu muova un passo verso di loro. Specie in momenti difficili come quelli che abbiamo vissuto l’anno scorso. Abbiamo avuto tre lutti gravissimi: prima è mancato all’improvviso il papà di Parisi, poi la mamma di Viti, infine mio fratello, che era una roccia e in venti giorni se ne è andato. E’ un gruppo di giocatori molto sensibile. E curioso: Romagnoli studia filosofia e mi fa vedere le cose sotto una lice diversa.”

Avete una mentalità offensiva.

“Vogliamo giocarcela sempre, con tutti. Nella pancia dello stadio abbiamo appeso un cartello:”Si può fare”. É il nostro mantra. I giocatori finiscono per crederci. Gli altri sono più bravi, ma qualche difetto glielo troviamo e su quelli dobbiamo battere per limitarli. Le grandi vanno a 120 e noi ci fermiamo a 98, forse 100: ma se abbassiamo il loro valore a 95, superandole nella corsa o nella tattica, forse vinciamo. Com’è successo. E, quando non è successo, per esempio contro il Milan, quando abbiamo perso 4-2, alla fine ho detto ai ragazzi: per come abbiamo giocato, la partita è vinta.”

Ricci, Bajrami,Viti, Zurkowski, Parisi, Stojanovic: secondo noi, tutti destinati a una grande carriera. Dimentichiamo qualcuno?

“Asllani e Baldanzi, centrocampisti. Un 2002 e un 2003. Viti è pure un 2002 ed è campione nella testa. Può giocare titolare sempre, ma va accompagnato, perchè abbia il tempo di metabolizzare ciò che gli succede intorno. La doppia ammonizione in 20 secondi col Sassuolo lo dimostra.”

Lei è toscano di Massa e ad Empoli, oggi come nel 2017, esprime la versione migliore del suo calcio: è anche perchè sa di essere a casa?

“Il fatto di lavorare vicino a dove abito incide molto: mi rasserena e tranquillizza.Tra campo e ufficio sono occupato tutti i giorni dalle otto e un quarto del mattino alle nove meno un quarto della sera ma dopo posso tornare da mia moglie Antonella. Non è un privilegio di tutti i miei colleghi. Avverto un senso di appartenenza forte con questi luoghi e questa gente, anche se la frequentazione con la città e scarsissima. All’inizio la parola “nonno” girava anche nell’ambiente, forse come una presa in giro. Il mondo del calcio è fatto di stereotipi che fai fatica a estirpare. Si giudicano le persone non per quelle che sono, ma per quelle che potrebbero essere o che, nel mio caso, l’anagrafe dice che siano. Adesso quell’appellativo mi pare sia usato con tenerezza. E comunque, per fare il mio mestiere ci vuole un altro tipo di energie.”

Quale?

“Devi saper conoscere le persone, in modo da tirare fuori il meglio da loro. Devi condividere, non imporre. Nel momento in cui entri nello spogliatoio hai due minuti per fare colpo, oppure per deludere. I giocatori te ne concedono altri due o tre per ascoltare le tue idee. Una volta in campo, si aspettano che tu sappia metterle in pratica. E’ un attimo essere scoperti e messi a nudo.”

E lei come riesce a convincere?

“Ho usato sempre lo stesso sistema, dai dilettanti ai professionisti: non mi atteggio a fenomeno ma resto me stesso, senza fingere di aver inventato il calcio. Mi dedico ai giocatori e non al culto della mia persona.”

Ma è nonno davvero?

“Si, di Tommaso, 4 anni e mezzo. E vorrei essere più presente.”

Ha fatto tantissima gavetta nelle serie minori toscane, un po’ come Sarri. Si è mai chiesto perchè non ha fatto la stessa carriera del suo corregionale, a maggior ragione per la filosofia calcistica che vi accumuna?

“A proposito di gavetta, penso che non ci sia nessun in Italia che ne ha fatta tanta come il sottoscritto: mi manca la Terza Categoria, ma per il resto ho allenato in tutti i campionati, più Primavera e Allievi. Forse per un periodo mi è mancata un po’ di presunzione, o meglio, di ambizione. A un certo punto della carriera ho conosciuto Luciano Spalletti, che mi ha aperto un mondo al quale non so se ci sarei arrivato da solo. E il fatto stesso che stia qui ad ammetterlo, dimostra che quella ambizione non ce l’avevo.”

La chiamata dell’Empoli….

“Ero sulla mia bici, mountain bike o da strada fa lo stesso, l’importante è fare fatica, la pianura mi fa schifo e ho la fortuna di avere le Alpi Apuane a portata di mano, quando mi chiamano la mia prima reazione è: ma questi che vogliono? Però è brutto dire: “Non mi interessa” a chi, al contrario, l’interesse nei tuoi confronti lo dimostra. Così studio la squadra, ci incontriamo, espongo le mie idee. Sopratutto, mi chiedo ad alta voce come fosse possibile che giocatori come Di Lorenzo, Bennacer, Zajc non giocassero. Io li metto in campo e nasce l’Empoli del 4-3-1-2, che ora è il marchio tattico della squadra. Non avevo mai adottato quel sistema, ma sembrava l’ideale per i giocatori a disposizione.”

Il fagiano Andreazzoli, chiamato adesso da un grande club, cosa risponderebbe?

“Nulla, perchè non è possibile che succeda. Però mi lasci dire una cosa: se io assumo una persona a dirigere la mia azienda, guardo l’età o il curriculum? Nel calcio si guarda l’anagrafe perchè, dicono i presidenti, bisogna programmare. Con me, la programmazione è durata una volta fino al 21 ottobre, un’altra fino al 5 novembre. La prima volta era il compleannodi mio nipote, la seconda festeggiavo gli anni io. Il calcio vive di pressioni, qualche pregiudizio e di poca voglia di approfondire le cose, ma è evidente che un allenatore, soprattutto se a parole apprezzato, ha bisogno di tempo per modellare la materia.”

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