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Olimpiadi. Dalle vacanze all’oro: la favola dello Zimbabwe di hockey su prato femminile a Mosca 1980

Cenerentola, nello sport, non è un bell’appellativo. Si chiama cenerentola, di solito, quella squadra che si presenta ad un torneo sapendo già di essere nettamente più debole delle altre compagini e sul campo recita perfettamente il ruolo di vittima sacrificale, subendo sconfitte di dimensioni spesso imbarazzanti dalle corazzate di turno. La storia olimpica, però, contempla anche una cenerentola diversa dal solito, la nazionale di hockey su prato della Rhodesia, poi ribattezzata Zimbabwe che, nel 1980 a Mosca, passò nel breve lasso di tempo di cinque settimane dalle vacanze dopo aver fallito la qualificazione ad un insperato e inatteso risultato straordinario.

Mi chiamo Ann Grant, sono stata la capitana della nazionale di hockey su prato dello Zimbabwe. Ero a Brighton quel pomeriggio di luglio del 1980, mio fratello Duncan Fletcher Grant era impegnatissimo a preparare la tournee della nazionale di cricket inglese in Asia e il sole, sulla spiaggia, non ne voleva sapere di uscire. Me ne sono tornata in albergo e non ho fatto in tempo a entrare nella hall che due persone mi hanno chiamato in tutta fretta. Mi sono quasi preoccupata, temevo fosse accaduto qualcosa ai miei genitori, giù in Zimbabwe. ‘chiami subito questo numero, hanno cercato di lei due volte in un’ora’ mi disse il cameriere. Chiamai e dall’altra parte una voce gentile mi disse ‘Ci hanno chiesto di partecipare alle Olimpiadi per sostituire le nazioni che hanno boicottato, abbiamo bisogno di lei per Mosca subito’. Non credevo alle mie orecchie. Non capivo se era uno scherzo. No, non era uno scherzo. Feci immediatamente le valige

L’hockey su prato femminile si affacciava per la prima volta sul palcoscenico a cinque cerchi proprio nell’edizione moscovita dei Giochi e il boicottaggio voluto da Carter e confermato a un paio di mesi dalla cerimonia di apertura, tolse di mezzo ben cinque delle sei squadre qualificate al primo torneo olimpico di hockey su prato femminile. Gli organizzatori, però, volevano a tutti i costi far disputare il torneo e invitarono ad affrontare la già qualificata squadra di casa le nazionali di  Repubblica Ceca, India, Austria e Polonia.

A poco più di un mese dai Giochi mancava l’ultima formazione e il Comitato Olimpico russo pensò allo Zimbabwe un piccolissimo stato circondato dal Sudafrica che aveva da poco cambiato nome dopo le elezioni di febbraio che mandarono al potere il nero Robert Mugabe con conseguente abolizione delle leggi sull’apartheid e sostituzione del nome Rhodesia con Zimbabwe, facendo riammettere lo stato africano al CIO. I russi offrirono anche denaro alla nazionale africana per sovvenzionare la trasferta olimpica e, ad una settimana dall’inizio del torneo, la federazione dello Zimbabwe diramò le convocazioni. Tutte atlete bianche di pelle, che fino a poco prima formavano la rappresentativa della Rhodesia, partirono senza neppure le scarpe per giocare a Hockey sulla superficie artificiale dello stadio di Mosca.

Neanche il tempo di un allenamento. Alcune di noi non si erano mai viste prima, neanche conoscevamo i nomi delle altre ragazze. Ci imbarcarono in un aereo cargo, solitamente utilizzato per trasportare carne, non c’era altro a disposizione. Il fetore era quasi insopportabile ma io e le mie compagne stavamo andando all’Olimpiade e niente poteva fermarci. Non c’erano posti a sedere, così ci siamo sdraiate sul pavimento”.

La cenerentola Zimbabwe scese in campo il 25 luglio alle 11 allo stadio Young Pioneers per la prima gara di hockey su prato della storia olimpica contro la Polonia. La sorpresa per le nazionali dello Zimbabwe fu il manto artificiale, visto che dalle loro parti si giocava rigorosamente su erba. Pat McKillop siglò la prima di 4 reti che sancirono il 4-0 sulle polacche e restò nella storia come primo gol dell’hockey su prato femminile nella storia delle Olimpiadi. Nel seguito del torneo olimpico, che prevedeva un girone all’italiana senza finali, lo Zimbabwe pareggiò 2-2 con la Cecoslovacchia, battè 2-0 le padrone di casa della Russia, pareggiò 1-1 con l’India e superò 4-1 l’Austria nella gara che permise alla formazione allenata da Anthea Stewart si sopravanzare la Cecoslovacchia in classifica e di regalare allo Zimbabwe il primo oro olimpico della storia. Durante i festeggiamenti per la vittoria, mentre in campo si stappava champagne, sugli spalti i pochi sostenitori della nazionale africana intonarono un canto tradizionale zulu al posto dell’inno nazionale che ancora non esisteva.

Al nostro rientro in patria fummo accolte come delle star di Hollywood ma qualcosa ci rovinò la festa. Durante il torneo olimpico Sally, la moglie del nostro Premier Mugabe, ci promise che se avessimo vinto l’oro avrebbe regalato un bue ad ognuna di noi. Del bue neanche l’ombra ma al dito di Sally c’era un diamante che fece impazzire ognuna di noi. Qualcuno a lei aveva mantenuto la promessa che lei non seppe mantenere con noi. Quel giorno ci salutammo convinte che ci saremmo riviste da lì a poco magari per giocare qualche altra partita ma in realtà solo due di noi decisero di restare in Zimbabwe a vivere, mentre gran parte della squadra si sparpagliò per tutto il mondo. Ci siamo riviste, 20 anni dopo. Qualcuno volle riunire il gruppo delle “Golden girls” ma anche in quell’occasione niente bue per regalo”.

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Foto Wikipedia

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