Kobe Bryant moriva un anno fa, a 41 anni, il 26 gennaio, in un incidente di elicottero insieme alla figlia Gianna, il cui obiettivo era giocare nella Wnba. Finiva così una carriera come pochissime nella storia della pallacanestro: cinque titoli NBA, due ori olimpici, due premi di MVP delle Finali, uno della regular season e una sequenza di record e di ricordi che gli appassionati non hanno dimenticato. Il 19 gennaio esce Kobe. La meravigliosa, incredibile e tragica storia del Black Mamba di Simone Marcuzzi (Piemme, pagg. 240, € 16,90), un libro che ne celebra il genio ed il talento, ma che si interroga anche su un agonismo divorante, che lo spinto oltre gli avversari, oltre i suoi limiti, oltre il mito di Michael Jordan. Mentre le scorse settimane la madre di Vanessa, la moglie di Kobe, faceva causa per ottenere parte dell’eredità a risarcimento di «anni passati a fare la babysitter», Lebron James si presentava al primo allenamento stagionale dei Los Angeles Lakers con una maglia in omaggio a Kobe Bryant e alla figlia. Sull’atleta è stato scritto molto, Spike Lee ne ha anche fatto un film, Kobe doin’ work (2009), e Kobe era un beniamino dei media. Ma Marcuzzi è riuscito a dire qualcosa di nuovo, «trattandolo come il personaggio di un mio romanzo. Non avevo nulla da aggiungere sulla cronaca della sua vita ma potevo cercare di penetrare un po’ nella sua testa e nel suo cuore, di affrontarne o immaginarne tutti i lati, anche quelli oscuri».

Leggi l’intervista di Enzo D’Antonio a Simone Marcuzzi su GQ di gennaio, ora in edicola

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