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F1, Monza 1979 quarant’anni dopo!

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Jody Scheckter Italian GP, Monza 5-8 September 2019


Quarant’anni fa, il 9 settembre 1979, i box odoravano di nuovo e tutto l’Autodromo Nazionale di Monza si specchiava al sole fiero della sua veste rinnovata, in tempo per il Gran Premio d’Italia. Solo la consistente e velocissima Ligier Cosworth di Laffitte contendeva alle Ferrari di Schechter e Villeneuve la meritata conquista del doppio alloro mondiale e ogni elemento, dal più insignificante centimetro d’asfalto fino alla più alta chioma dei lussureggianti alberi del parco, fremeva d’attesa allo stesso ritmo incalzante dei cuori dei tifosi. Spesso mi sono chiesta cosa si provasse, in giro per l’autodromo, in quei giorni, in un’epoca in cui nel giro di una curva si poteva passare dalla gioia per una vittoria alla disperazione per un lutto. Sono tornata a chiedermelo in questi giorni, quarant’anni dopo, di fronte al ripetersi dell’ineluttabile fato di un mestiere pericoloso, di fronte al fatto che sono sempre giovani – troppo dannatamente giovani – quelli che se ne vanno.

Non doveva essere affatto facile accostarsi al Tempio senza provare sentimenti contrastanti, quarant’anni fa, nel 1979. L’inizio del campionato non era stato dei migliori, con le Ferrari costrette a subire l’onta del doppiaggio, messe in difficoltà, oltre che dalla sorprendente Ligier, dalle potenti Renault di Jabouille e Arnoux. Ma non appena l’asso sudafricano e il piccolo canadese avevano potuto contare sulla 312T4 plasmata da Mauro Forghieri, ecco che erano arrivate le affermazioni e le vittorie: Kyalami, Long Beach, Zolder, Monaco… E Digione, dove il crescendo rossiniano di Villeneuve e Arnoux per la seconda piazza aveva oscurato il primo posto di Jabouille, ma non cancellato il fatto che era stata una Renault a vincere quel Gran Premio.

E poi quella pista, così lineare eppure così sovrannaturale, sembrava fatta a posta per cullare i sogni di appassionati e piloti, tuttavia era stata spesso teatro dei loro peggiori incubi. Von Trips, Rindt e solo l’anno prima Peterson avevano pagato con la moneta più cara, il proprio futuro, il prezzo di aver legato le proprie vite e aspirazioni al rischio e alla velocità. Qualche anno prima, invece, Lauda era tornato trasfigurato da campione a leggenda, scrivendo la più coraggiosa e toccante pagina della sua personale storia di motorsport, presentandosi in pista solo quaranta giorni dopo l’orrendo rogo del Nürburgring.  Oggi, quarant’anni dopo, Niki ci guarda da lassù, dove il Dio delle Corse lo ha chiamato a sé qualche mese fa: gli serviva una mano per le missioni impossibili e chi meglio di un immortale poteva assoldare?

Quella era Monza: sospesa fra lacrime e cielo, fatta di calcestruzzo impastato di storia e placida come un vulcano un minuto prima di un’eruzione. Quella era la Ferrari: un’opera d’arte e dell’ingegno venuta fuori dall’unione di metallo, potenza e un numero incalcolabile di cuori purissimi, forgiati dalla caparbia genialità di un meccanico modenese, che aveva riscritto la storia della Formula Uno con l’inchiostro viola della sua stilografica. E quelli erano Gilles e Jody, stretti fra l’abbraccio di quel metallo e il battito di quei cuori, chiamati a correre sul ciglio di quel vulcano.

Spesso mi sono chiesta cosa potessero provare a sentire la conquista così vicina e al contempo così lontana, perché poteva ancora succedere qualcosa – qualunque cosa – per trasformarla in una chimera. Me lo sono chiesta spesso, molto spesso, durante i ventuno anni di digiuno, un supplizio di Tantalo con il quale condividevo l’anno di nascita: Jody, se non avesse vinto, sarebbe passato alla storia “solo” come colui che aveva vinto in Formula Uno su una vettura a sei ruote – la leggendaria Tyrrel P34 – mentre Gilles… Beh, lui era Gilles Villeneuve e, quando fu chiaro a tutti in Ferrari che, per vincere il Titolo, a Monza  Scheckter doveva vincere, disse chiaramente quel che pensava:

“Nessun problema, noi abbiamo molto tempo e so che avrò la mia occasione”

E a questo punto non ha più senso quel che io o chiunque altro possiamo chiederci.

Quarant’anni fa, il 9 settembre del 1979, la Ferrari aveva raddrizzato una stagione storta a colpi di furibondi tentativi di miglioramento e… e di amore, andandosi a giocare sia il titolo piloti che il costruttori. Posso solo immaginare cosa provassero tutti, quarant’anni fa, dal singolo meccanico al tifoso arrampicato sui cartelloni pubblicitari, dal più insignificante centimetro d’asfalto fino alla cime degli alberi lussureggianti, quando, a fine gara, arrivarono vittoria, titolo piloti e titolo costruttori in parata, con Gilles a proteggere Jody. Qualcosa di tanto grande da far superare indenni una più che ventennale attesa.

Oggi, quarant’anni dopo, la Ferrari è fuori dalla lotta che conta e sa di dover aspettare ancora. Ma ieri a Monza un pilota ha tagliato il traguardo in testa dopo aver corso una gara sul ciglio di un vulcano in eruzione e tutto lo spazio fra cielo e pista è diventato del colore della sua tuta. Rosso.

Basterà a cancellare per un po’ l’amara considerazione di essere relegati, ormai da troppo tempo, a raccoglitori di briciole.


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