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Il post sui social e poi il salto fatale: Emanuele, il ragazzo dal cuore dolce con la sfida nel dna

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Il post sui social e poi il salto fatale: Emanuele, il ragazzo dal cuore dolce con la sfida nel dna

PIOMBINO. «Obiettivi alti, aspettative basse e sforzo continuo: questa è la formula vincente». Emanuele Vetere, 31 anni, viveva così il suo rapporto con lo sport e con se stesso. Una sfida continua, al limite delle proprie possibilità e oltre. Stavolta l’ultima impresa gli è costata la vita. Il suo corpo è stato trovato ieri notte ai piedi di un traliccio Enel, nel padule di Perelli, a Piombino, dove era andato per lanciarsi con la tecnica del base jumping, il salto con il paracadute dalle superfici più basse e più varie.

Emanuele era un paracadutista del Col Moschin, il selezionatissimo battaglione di assalto con base a Livorno. Non era uno “operativo”, lavorava nel settore della logistica. Ma operativo lo era eccome nella vita privata, nello sport, anzi nel culto dello sport: lanci col paracadute, arrampicate a mani nude, ciclismo, corsa, sci, snowboard, surf, nuoto. Amava tutto.

Piombino, l'ultimo video postato dal paracadutista mortofoto da Quotidiani localiQuotidiani locali

A Perelli, sulle prime si è ipotizzato che il giovane fosse caduto mentre si arrampicava su quella torre di ferro, usata a suo tempo dall’Enel come stazione meteo e ora dalla Wind per l’installazione di ripetitori telefonici.

Ma secondo i carabinieri, che stanno conducendo le indagini, la posizione del corpo (trovato a cinque-sei metri dal traliccio, con il paracadute parzialmente aperto) è perfettamente compatibile con l’ipotesi del lancio andato male. Un lancio da far tremare i polsi, da appena 60 metri, un’altezza minima che non concede alternative: il paracadute deve aprirsi al momento dello stacco e prendere subito portanza, altrimenti non c’è il tempo di reazione.

Ma Emanuele non si era mai fermato davanti alla paura. Quella però hanno cominciato ad averla i suoi amici, che lo aspettavano a cena in un pub a Livorno. Sapevano che lui aveva programmato il lancio da quel traliccio, come si intuisce anche da una “storia” pubblicata da lui stesso sui profili Facebook e Instagram. A quanto pare, il tentativo era previsto alle 20,30. Da quell’ora, lui è sparito dai radar. Gli amici hanno provato invano a chiamarlo al telefono e poi si sono messi a cercarlo. Qualcuno di loro è andato a Perelli, ha riconosciuto la macchina parcheggiata lì vicino, ha percorso i campi e superato i fossi. E si è trovato di fronte il corpo dell’amico.

La salma è tuttora all’obitorio del cimitero, in attesa che il sostituto procuratore Niccolò Volpe decida se disporre autopsia e perizia tecnica.

Il traliccio è alle spalle dello stabilimento balneare Pascià. L’accesso è teoricamente vietato, ci sono anche transenne e una rete. Ma la rete era abbassata, non sappiamo se fosse stata già manomessa da qualcuno in passato. Sappiamo invece che circa un anno fa altri jumper erano andati a fare un sopralluogo e si erano arrampicati su quella torre. E avevano rinunciato al lancio perché secondo loro non c’erano le condizioni minime di sicurezza.

Ma la sfida era nel dna di questo ragazzo originario di Vizzolo Predabissi, hinterland sud di Milano al confine con il Lodigiano, che viveva e lavorava a Livorno ma che girava il mondo non appena aveva un po’ di tempo libero. Tra imprese in solitaria e campionati del mondo per Ironmen, uomini di ferro. Da qualche anno con lui, oltre alla fidanzata, c’era l’inseparabile cagnolino Supertrump, compagno di numerose avventure anche con il paracadute.

Sui social ci sono foto e video di moltissime imprese. Una sfida continua, dicevamo, ma mai a petto in fuori, mai ostentata, mai con arroganza. Le cose che scriveva questo ragazzo ci raccontano un po’ di lui, di come viveva il suo rapporto con se stesso, con il suo fisico, con la forza di gravità e con il mondo. Sfide, imprese ma anche pensieri profondi, pennellate di umanità e grande sensibilità. Un quadro che stride molto con l’immagine stereotipata del militare fisicato, e in particolare del parà.

E poi la beneficenza, altro tratto della sua personalità. E la fantasia. Per raccogliere fondi in favore di un’associazione oncologica, durante il lockdown si era cimentato nella “scalata all’Everest” nel proprio palazzo. Era il 13 aprile. Ecco il post che aveva scritto prima di percorrere su e giù le scale del proprio condominio: «Come sempre nessun atto di eroismo né impresa titanica (non so nemmeno se arriverò alla fine) cerchiamo solo di fare del nostro meglio per continuare a vivere di sogni».

E alla fine delle ripetute, scrisse: «7058m di dislivello positivo, 7058m di dislivello negativo, 19. 01’ore no stop, 1108 giri, 54. 292 gradini, 55,58 km. Numeri di una giornata che non cercava un gesto atletico, ma un viaggio per supportare un amico che ha scelto di sostenere una causa nobile, aiutare chi fa del bene al prossimo. Questa avventura si è conclusa così, la cima più alta, la vetta assoluta degli 8848 metri dell’Everest non è stata conquistata per oggi. Rischio valanghe troppo alto, nevicava e iniziava ad alzarsi la temperatura. Volevamo inoltre esser solidali in un momento difficile per tutti. Con la forza mentale si può arrivare molto lontano. Un viaggio mistico che mi ha regalato veramente tanto, ho visto cime e paesaggi stupendi. Andiamo a riposare sapendo di averci messo tutto il cuore e la gamba che avevamo oggi dopo un mese di stop dalla corsa».

La forza di volontà, la voglia di superare anche gli infortuni. La capacità di contagiare persino il padre Salvatore, trascinandolo due anni fa all’Ironman 70. 3 di Barcellona. Il padre che fino a poco tempo prima lo seguiva e si chiedeva come facesse a sopportare tutta quella fatica e che poi fu convinto a cimentarsi con lui nella categoria M55-59. Perché, disse Emanuele, «è questa l’anima dello sport, quello sano, quello privo di pregiudizio. Lo sport alla portata di chiunque riesca ad armarsi di gioia, sorrisi e determinazione».

Nel 2012 il parà Emanuele Vetere aveva il brevetto di soccorritore sugli impianti sciistici. Durante la ricognizione di una pista perse la lamina di uno sci su una lastra di ghiaccio e si ruppe crociato, menisco e piatto tibiale. Dopo l’operazione, una convalescenza lunga sei mesi. Ma a due mesi dall’operazione cominciò a correre e ad avere sempre più chiaro uno degli obiettivi che si era posto nella vita: disputare un Ironman 70.3 e poi un Ironman. A 4 mesi dall’operazione partecipò alla sua prima gara di triathlon, l’Aronaman. «È stato amore a prima vista e ancora oggi me ne innamoro sempre più a ogni gara» disse a una rivista specializzata.

Da allora, non si contano le avventure di questo ragazzo bello, forte e follemente sognatore. Fino all’ultimo salto, alle spalle di un tramonto sul mare. 

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